Def-inire.

Def-inire.

C’è un filo che lega il Def (documento di economia e finanza), approvato ieri dal governo, l’impegno per il pieno successo del Pnrr e le nomine nelle imprese controllate dallo Stato. Che destano nervosismo nella maggioranza. E c’è una partita politica, che accompagna lo sgranarsi di quella collana.

I dati Eurostat confermano un dato positivo e un danno permanente. Il dato positivo è che, fra il 2021 e il 2022, l’occupazione è cresciuta più della media Ue (+1.9% rispetto a +1.5%). Il danno permanente è che in nessun Paese europeo si lavora in meno numerosi che in Italia: da noi il 60.1% della popolazione attiva; nella media Ue il 69.9; ma in Germania (la prima potenza industriale, noi siamo la seconda) il 77.2%. Queste sono medie, se guardiamo dentro la realtà italiana troviamo aree che superano la quota europea e aree d’inammissibile arretratezza. Non solo lavoriamo in pochi, ma non si trovano italiani disposti o capaci di fare molti lavori. Siccome la crescita della ricchezza è frutto del lavorare e dell’intraprendere, noi sommiamo una crescita inferiore al possibile e uno squilibrio territoriale non sostenibile. E questo ci porta al Def.

La dottrina spendarola, a destra e a sinistra, detta una solenne sciocchezza: più lo Stato spende e più si cresce. Se fosse vero, con il debito che ci ritroviamo e, quindi, la spesa in deficit fatta, dovremmo essere i campioni europei. Ma non è vero. Però è affasciante, specie se si punta a raccattare voti usando i soldi dei contribuenti onesti. Per questo è significativamente positivo che il Def descriva un calo progressivo del peso del debito pubblico sul prodotto interno lordo, in continuità con i conti del governo Draghi. Perché segnala che non si è abbracciata la dottrina spendarola. E questo origina già dalla campagna elettorale, quando Forza Italia e Lega reclamavano lo spendarolo “sfondamento di bilancio” e Fratelli d’Italia s’opponeva. Il partito d’opposizione era più draghista dei due al governo. E questo è il punto relativo alla partita politica. Ci arriviamo.

Nel Def il deficit resta alto (4.5), ma in linea con le previsioni. Il 2023 si conferma anno di crescita (l’opposto della recessione inesistente, di cui si strillazzava in campagna elettorale), semmai più marcata: 1%. Senza, però, che ci sia traccia dei soldi Pnrr. Non che il governo non pensi di utilizzarli (sarebbe una follia), ma, prudentemente, non ne contabilizza gli effetti nell’immediato, guarda un po’ oltre. Se tutto andrà per il meglio, insomma, si rivedrà al rialzo la crescita e il governo (giustamente) s’attaccherà una medaglia al petto. Ma può andare per il meglio? Qui si arriva alle nomine.

Sono sempre state politiche e sono sempre state spartitorie. I moralismi a intermittenza sono immorali. Preferirei meno Stato nel mercato e diversa procedura, ma questa è la zuppa ed è inutile far boccuccia. La novità è un’altra: da quelle grandi società passa parte significativa delle opere Pnrr. Qui non si giocano delle poltrone, ma la testa dell’operazione. Non è che Meloni, come taluni scrivono, voglia tutto per sé, è che non vuole si riproduca la divisione della campagna elettorale sullo sfondamento, per cui taluni puntano al fallimento per poi inscenare il vittimismo e la rottura europea (con il plauso del Cremlino). Sono forze che vogliono ingabbiare una Meloni già impastoiata con le proprie stesse parole sbagliate: si è ancora fermi sulla concorrenza e il 20 aprile si pronuncia la Corte di giustizia sui balneari.

L’interesse dell’Italia è che quegli investimenti riescano. Un dovere da definire e adempiere. Sarebbe interesse comune che anche l’opposizione se ne rendesse conto, anche perché governare dopo un fallimento sarebbe atroce. Ma, riuscendoci, il partito pragmatico di centro diventerà l’attuale destra e quelli che volevano stare al centro verranno sbattuti alla destra protestataria. A quel punto o si fa il salto, portando in Parlamento il dialogo istituzionale, o si resta nella marana delle false alleanze, incapaci di governare.

 

La Ragione

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