Fra sfiorare e sforare c’è solo una vocale, che fa la differenza. Ma nel caso del nostro bilancio, questa differenza – quasi impercettibile dal punto di vista del suono e della scrittura delle parole – è enorme dal punto di vista degli effetti finanziari, che riguardano il nostro debito pubblico. E, perciò, essa influenza fortemente le decisioni dei risparmiatori nazionali e internazionale che lo posseggono e di quelli che lo potrebbero comprare.
Il nostro debito pubblico nei sette anni dopo la caduta (orchestrata) del governo Berlusconi alla fine del 2011 è aumentato dal 118% al 132%. Per ridare agli investitori la fiducia nel nostro debito, che sin qui è stata assicurata dalla politica di acquisto della Bce di titoli a medio e lungo termine sul mercato secondario, occorre fare calare il rapporto debito pubblico/Pil di almeno due punti all’anno cioè di sei punti nel prossimo triennio. Esso così scenderebbe sotto il 130%, in un area prossima al 125%. Se ciò non accadrà, la parola d’ordine che correrà fra i consulenti finanziari dei risparmiatori stranieri e italiani, sarà molto più facilmente «vendere» che «comprare», perché il debito italiano sarà rischioso, in quanto sta per terminare la rete protettiva degli interventi di acquisto della Bce. Per di più, il presidente Mario Draghi che l’aveva teorizzata e applicata, sarà sostituito da un altro presidente. In questa prospettiva senza una riduzione del debito pubblico che lo porti sostanzialmente sotto quota 130, e faccia vedere che l’Italia vuole risanare questa anomala situazione, lo spread ovvero divario fra il tasso di interesse sui Bund tedeschi e i titoli del debito italiano aumenterà, generando un costo addizionale degli interessi sul debito pubblico che farà salire la spesa pubblica e peggiorerà il bilancio, innescando una spirale minacciosa di perdita di credibilità della nostra finanza pubblica.
Ed ecco la differenza fra sforare e sfiorare tradotta in cifre, cioè dal gioco di parole al gioco dei numeri. L’idea che emerge fra i politici è quella di sfiorare il deficit del 3% – come annunciato domenica sera dal vicepremier Matteo Salvini -, ma non di sforarlo onde avere a disposizione un tesoretto da usare soprattutto per nuove spese correnti come il reddito di cittadinanza cioè l’assistenzialismo a cui si aggiungerebbe uno spazio per la Controriforma delle pensioni, con briciole per una prima attuazione della flat tax e per investimenti essenziali.
Ma un deficit del 2,99%, dato l’aumento del Pil reale dello 1,3% e di quello monetario dello 1,5%, ossia con un aumento del Pil nominale del 2,8, comporterebbe solo una riduzione di 0,9% del rapporto debito/Pil in quanto il Pil salirebbe di 2,8 mentre il debito per mantenersi a una percentuale attorno al 130% potrebbe crescere di un 30% in più di 2,8% ossia di 0,93% a 3,73%. Pertanto la riduzione del debito sfiorando il 3% senza sforarlo scenderebbe di meno di un punto. Se invece il deficit sfiora il 2% ma non lo sfora, la riduzione annua sfiorerebbe i due punti. Ma ciò comporta di sacrificare l’attuazione del reddito di cittadinanza e di limare le altre due riforme, per salvare anche gli investimenti essenziali.
Mentre il programma minimo della Lega consente di sfiorare il parapetto con cui ci si difende dal rischio debito, senza sforarlo e creando più crescita in futuro, il programma dei 5 Stelle, che non può fare a meno di una spesa non irrisoria per il reddito di cittadinanza e progetta pochi investimenti, tutti con denaro pubblico, lo sforerebbe e peggiorerebbe la capacità di crescita.
Francesco Forte, Il Giornale 4 settembre 2018