Deporre le armi e depositare le sentenze. Togliere le prime dalle mani e dalle bocche di chi straparla, senza avere idea alcuna del diritto e dei diritti. Puntare alle seconde, per ragionare su come rimediare alla malagiustizia.
Quel che produce più guasti è l’irresponsabilità. Vale in qualsiasi attività e settore, perché chi non è responsabile di quel che fa e di come lo fa è anche portato alla sciatteria. Ma vale in modo particolare quando l’irresponsabile è chi è chiamato a valutare e giudicare le responsabilità altrui. Due casi, in queste ore, sono fatti apposta per rinfocolare le polemiche.
La Corte costituzionale stabilisce che una intercettazione (relativa al Presidente della Repubblica, all’epoca dei fatti Giorgio Napolitano) non si sarebbe dovuta fare e dispone la distruzione del materiale raccolto. Ora Antonio Ingroia, ovvero l’autore di quel che è stato bocciato, se ne esce rilasciando dichiarazioni in cui richiama quel che in quelle intercettazioni sarebbe stato ascoltato, senza che sia possibile controllare la veridicità delle sue parole. Non è accettabile.
Che la Corte dei Conti abbia una sua utilità è da dimostrarsi, ma che un suo consigliere possa esprimersi sui conti pubblici e sulla legge di bilancio, usando un linguaggio da bettola, non è accettabile. Dice lui, Marcello Degni: non è messa in dubbio la mia imparzialità. Lo è eccome. E chiede: un magistrato non può forse esprimere le proprie opinioni? No. Non su quel che è di competenza della giustizia, per la stessa ragione per cui un arbitro non può mescolarsi alla tifoseria, anche se arbitra un’altra partita.
Se queste cose succedono non è solo perché dilaga l’irresponsabilità, ma anche perché scema la cultura. Il non ponderare, il non comprendere l’enormità di tali condotte, è un derivato di formazioni culturali senza spirito critico, senza riflessione, senza sofferenza interiore. Che vive nell’assuefazione e nel diffondersi dell’ignoranza. Prendiamo un singolo aspetto del tema giustizia. Sarà utile a capire.
Pochi giorni fa s’è diffusa la notizia di un processo penale conclusosi dopo 20 anni, di cui 3 necessari per il deposito delle motivazioni della sentenza, in un grado di giudizio. Non ha destato scalpore, non è una così clamorosa eccezione, ce ne siamo già dimenticati. Eppure è abominevole.
La nostra Costituzione – articolo 111 – stabilisce che <<Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati>>. Non in tutti i sistemi è così, ma da noi si chiede la modifica o cancellazione di una sentenza dopo averne letto le motivazioni. Il Codice di procedura penale – articolo 544 – prevede che, una volta stabilito il dispositivo (ovvero la parte della sentenza che si legge in Aula, colpevole o innocente): <<subito dopo è redatta una concisa esposizione dei motivi di fatto e diritto su cui la sentenza è fondata>>. Il che è anche logico, visto che per arrivare al dispositivo il giudice o il collegio giudicante hanno prima stabilito perché e in base a quali norme. Ma, avverte il secondo comma: <<Qualora non sia possibile procedere alla redazione immediata dei motivi (…) vi si provvede non oltre il quindicesimo giorno da quello della pronuncia>>. Che sarebbe già un’eccezione. Il terzo comma la amplia e, per pochi casi particolarmente complessi, stabilisce che le motivazioni arrivino entro 90 giorni. È stato aggiunto un bis: se le motivazioni sono più di una si depositano prima quelle dei detenuti e, per gli altri, il termine massimo è 180 giorni. Dove sono i 3 anni?
La realtà è che quasi mai questi termini sono rispettati, ma nessuno mai ne risponde. Ovvero: la legge vale zero. Più o meno quel che pensano i delinquenti. Un condannato in primo grado resta in quella condizione per anni, anche se la sentenza sarà cancellata in quelli a venire. Roba incivile.
Possiamo anche passare i prossimi lustri a occuparci di chi straparla, ma se di una tale enormità neanche si parla il problema non è delle toghe, ma di una collettività che affonda. Inutilmente vociante.
La Ragione