Dirsi garantisti, approvare norme in difesa dell’autonomia della politica e della presunzione di innocenza e infine abbandonare Toti al proprio destino…

Dirsi garantisti, approvare norme in difesa dell’autonomia della politica e della presunzione di innocenza e infine abbandonare Toti al proprio destino…

La leggerezza con cui le forze politiche del centrodestra hanno scaricato sulle spalle del solo governatore Giovanni Toti il destino della giunta regionale ligure dà da pensare. È come se, al netto di qualche presa di posizione estemporanea, un’indagine da tutti considerata pretestuosa e un arresto da ciascuno spiegato con la volontà di decapitare un’istituzione democraticamente eletta fossero stati vissuti dai partiti di governo con la rassegnazione di chi assiste, impotente, all’ennesimo déjà-vu.
Non appena la tegola giudiziaria si è abbattuta sulla testa del presidente, tutti hanno infatti iniziato a posizionarsi in vista del dopo, evidentemente avvinti da un unico, impellente pensiero: evitare di essere macchiati dagli schizzi di fango della procura, riuscendo al tempo stesso a massimizzare il proprio, particolare, interesse.

In ossequio all’antica pratica del linciaggio, i leader nazionali dei partiti di opposizione hanno manifestato per le vie di Genova reclamando le dimissioni dell’indagato. Ma di fronte a loro non c’era nessuno. Giovanni Toti è stato abbandonato al proprio destino. Nessuno, tra i leader regionali e nazionali della maggioranza, ha inteso fare del suo caso una questione politica. Nessuno ha osato esporsi in difesa dello Stato di diritto o, come si sarebbe detto un tempo, del primato della politica.

Circostanza singolare, questa, considerando che in parallelo all’azione giudiziaria genovese il governo e la maggioranza di centrodestra varavano provvedimenti come l’abolizione del reato di abuso d’ufficio e la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. Provvedimenti ispirati a questioni di principio, principi che stentano ad essere impugnati fuori dalle aule parlamentari.

Diceva il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga che “non c’è segretario di partito, sindaco o presidente di regione che non possa essere legittimamente sbattuto da un momento all’altro in galera per tangenti o quantomeno per aver favorito il finanziamento illecito del proprio partito o della propria corrente”. Che ciò accada o meno dipende unicamente “dagli interessi contingenti della magistratura organizzata e dal caso, perché, come sostenne lo scrittore francese Émile Zola, la libertà personale è quella cosa che si trova nelle mani del giudice istruttore a seconda che si alzi dal letto col piede destro o col piede sinistro”. Tutto dipende, cioè, dalle ubbie politiche dei magistrati e dall’umore dei pubblici ministeri.

Ubbie e umori che, evidentemente, spaventano e paralizzano il ceto politico. Anche quello che, in Parlamento, sembra pronto a tutto pur di difendere l’autonomia della politica e la presunzione di innocenza del cittadino.

HuffingtonPost

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