Semplicemente un uomo libero e giusto
È noto che la vita di un uomo si giudica dalle opere: ciò che vale è ciò che si fa. Tuttavia, quando muore una persona cara che si ammira, ciò che si cerca istintivamente è il sorriso, la voce, gli occhi.
Antonio Martino aveva occhi intelligenti e curiosi che ricercavano nello sguardo altrui il gusto della vita libera.
Ironico, brillante, sarcastico. Come tutte le persone colte e intelligenti ricorreva spesso e volentieri all’ironia, quasi per celare con un velo di umiltà la sua profonda cultura e nascondere un malcelato pessimismo. Naturalmente, aveva le sue buone ragioni.
Ma noi, che ci sentiamo rincorrere dalla sua grandezza, abbiamo l’obbligo morale di bucare lo schermo ironico per mostrare proprio la sua opera e provare, almeno provare, ad esserne all’altezza. Disse, ripetendo una massima di Friedrich von Hayek con il quale conversava alla pari: “C’è una sola categoria di persone che detesto più di quelle che parlano male di me. Quelle che parlano bene di me”.
Mettetevi nei miei panni: non posso né parlarne bene, né parlarne male. Mi tocca dire semplicemente la verità: è stato detto che aveva la tessera numero 2 di Forza Italia, ciò che non è stato detto è che era il numero 1.
Aveva 13 anni Antonio Martino quando sentì il padre Gaetano – uno dei padri nobili del Pli e ispiratore dell’Europa unita – parlare in pubblico. Gli confidò di voler fare anche lui politica. Il padre così gli disse: “È una buona idea. Però, lo potrai fare soltanto dopo che avrai trovato un posto nella società”. Altri tempi. Oggi il mondo, il piccolo mondo italiano, si è capovolto: si entra in politica per trovarsi un ruolo nella società.
Antonio Martino, invece, seguì il consiglio paterno e si trovò, con la forza dello studio severo, un posto nel mondo. E che posto! Allievo di Milton Friedman e George Stigler. Ha insegnato nelle università di Roma “La Sapienza”, di Messina, Bari, Napoli e alla “Luiss” di Roma. E’ stato Presidente della Mont Pélerin Society. Autore di decine di libri che hanno come filo d’Arianna il principio della libertà al quale tutta la sua vita – da economista, da studioso, da politico – è stata fedele.
La sua partecipazione alla fondazione di Forza Italia è caratterizzata dalla fede nella libertà e dall’intimo convincimento che dopo la fine del comunismo sovietico l’Italia potesse passare dalla democrazia bloccata dal fattore K alla democrazia compiuta dell’alternanza in cui proprio il principio liberale della libertà come mezzo e come fine fosse la fonte della reciproca legittimazione della lotta politica dei partiti. Da parlamentare, da ministro degli Affari Esteri e da ministro della Difesa ha creduto e ha lavorato per il progresso liberale dell’Italia, dell’Europa, del mondo libero occidentale. E, tuttavia, questa è solo una parte minima della sua opera.
La più importante la dobbiamo cercare altrove. In un lavoro intellettuale e civile che non ha confronti con l’attualità e che rimanda direttamente alle grandi anime del liberalismo italiano del Novecento come Luigi Einaudi e Benedetto Croce.
La libertà, diceva Croce, non ha bisogno di aggettivi. Lo sapeva bene Antonio Martino che era liberale e basta, semplicemente liberale, come amava dire e come aveva intitolato il suo primo libro pubblicato con la casa editrice che ha rinsanguato la cultura liberale italiana: la Liberilibri di Aldo Canovari.
L’altro giorno leggevo alcune pagine di “Scuola e libertà” di Salvatore Valitutti. Un libro epocale che uscì nel 1974. In appendice vi sono due scritti di Antonio Martino sulla svalutazione del valore legale dei titoli di studio negli Stati Uniti d’America e in Inghilterra. Tutto torna.
Antonio Martino sapeva molto bene che il cuore della libertà è la testa. L’uomo non è onnisciente. Nessun governo sa tutto, dunque nessun governo può tutto. Ecco perché la libertà di pensiero e di educazione – la necessità, cioè, di custodire il valore critico della conoscenza – era per Antonio Martino la prima libertà da difendere e sempre riconquistare. L’economista Martino non era liberale perché economista ma, al contrario, era economista perché liberale.
Il filo conduttore della sua opera e della sua vita lo fornisce lui stesso: “La convinzione profonda che la libertà individuale sia, in tutti i campi, un valore importante ed un principio ineguagliabile di organizzazione sociale”. Queste, per noi oggi, sono parole profondamente vere e ci ammoniscono a difendere la libertà e a non barattarla con comode illusioni sicuritarie.
“Il vero liberale – diceva l’economista Antonio Martino – non difende la libertà per ragioni soltanto economiche. Anche se un sistema fondato sulle libere scelte individuali fosse meno efficiente di uno organizzato e diretto dall’alto, il liberale continuerebbe a preferire il libero mercato per ragioni di libertà enormemente più importanti di quelle connesse all’efficienza economica”.
Come se avesse messo insieme Einaudi e Croce che, per altro, erano molto meno in disaccordo di quanto non si creda. Martino era consapevole, fino a farne un costume morale, che libertà economiche e libertà civili si richiamano le une alle altre.
Il fallimento delle politiche stataliste è dovuto a ragioni non solo economiche e tecniche, ma ancor prima filosofiche ed etiche. L’opera di Antonio Martino ci dice in modo chiaro e rigoroso che ogni società fondata sullo statalismo, sia esso marxista, fascista, democratico, è destinata a rovinare per il semplice fatto che è in sé autoritaria, dispotica, distopica, in quanto assegna ad un’oligarchia il potere di imporre regole di vita, sul presupposto che gli individui siano incapaci di badare a sé stessi: di qui la pretesa di proteggerli e di soccorrerli con la costrizione.
La terribile profezia di David Hume è diventata la terribile profezia di Antonio Martino: le libertà raramente si perdono tutte in una volta. Fate attenzione all’erosione delle libertà, perché la perdita poco per volta della libertà genera abitudine e gli uomini si abituano a tutto, anche al peggio.
L’ultima apparizione di Antonio Martino è stata la sua lezione alla Fondazione Luigi Einaudi. Sembra un segno del destino. Quella sua lezione suona ora come il suo testamento spirituale.
Esordì dicendo: “Per me il primo liberale è il Padreterno perché facendoci scegliere tra il peccato e la virtù ci dona la libertà”. Che cos’è questa se non la spiegazione con parole semplici del mito dell’uscita dal Paradiso terrestre come felix culpa? E cos’è questa felix culpa se non la condizione umana in cui è necessario pensare e lavorare per vivere secondo libertà?
Amava ripetere e lo disse anche l’ultima volta in Fondazione: “Sono liberale cioè conservatore perché devo difendere le libertà acquisite; in quanto liberale sono radicale per conquistare nuove libertà; da liberale sono reazionario per recuperare le libertà perdute; da liberale sono anche rivoluzionario se non ho altre possibilità di difendere e riavere la libertà. E come liberale sono progressista perché senza libertà non c’è progresso”.
Questa frase, che mette in luce la dimensione storica della libertà nella sua contingenza e nella sua eternità, rimanda alla formula di Cavour: “Né reazione, né rivoluzione”. Ossia per evitare i due estremi, da un lato la reazione e dall’altro la rivoluzione, il liberale deve continuamente ri-formare, mettere in forma o, con parola più comune, deve sempre lavorare con il pensiero e con l’azione. Lavorare prima di tutto la vita, creando quell’opera di continua mediazione tra i conflitti che è la libertà. Perché solo nella libertà gli uomini sono eguali, solo nella libertà possono ambire ad essere giusti.
Come uomo semplicemente libero e giusto era Antonio Martino.