Ecco perché corrono tempi difficili per i direttori dei giornali

Ecco perché corrono tempi difficili per i direttori dei giornali

All’alba della nascita del primo governo Conte, il direttore del Mattino Alessandro Barbano fu cacciato dall’editore Francesco Gaetano Caltagirone per manifesta ostilità nei confronti del Movimento 5stelle. Nei giorni scorsi, il medesimo Barbano è stato cacciato dalla direzione del Messaggero dal medesimo Caltagirone per, si dice, scarsa sintonia nei confronti di Giorgia Meloni. Se le cose stanno così, se ne ricava che Francesco Gaetano Caltagirone desideri avere ottimi rapporti con chi governa a prescindere dalla maglia politica che indossa, e che il liberale Alessandro Barbano è, per dirlo alla spagnola, un Hombre vertical.

Più in generale, però, la morale è una: corrono tempi difficili per i direttori. Ammesso e non concesso che sia mai stata tutto vera, la retorica che li voleva liberi, indipendenti e pervicacemente indifferenti agli interessi economici delle aziende editoriali per cui laboravano è ormai passata. I quotidiani perdono sistematicamente copie, la crisi è strutturale. Le migliori energie di un direttore, dunque, vengono oggi impiegate in pratiche fino a ieri ritenute offensive: sollecitare gli inserzionisti pubblicitari, mettere a punto prodotti editoriali collaterali “sponsorizzati”, piazzare qua e là pacchetti di copie formalmente vendute, disciplinare le più bizzarre richieste del marketing, tutelare gli interessi extra editoriali di editori per lo più “impuri”. Attività un tempo sprezzantemente rubricate alla voce “marchette”, oggi elevate a condizione prima della sopravvivenza comune.

Ma, forse, c’è dell’altro. C’è che, in fondo, i giornali seguono lo stesso destino dei partiti politici. Gli uni perdono copie quanto gli altri perdono iscritti ed elettori; negli uni come negli altri c’è sempre meno spazio per l’autorevolezza, essendo l’obbedienza la qualità più richiesta; in entrambi i mondi la competenza non è più apprezzata né pretesa.
Mai come oggi i leader politici si sentono strutturalmente deboli e fisiologicamente precari. Mai come oggi esigono una libertà di movimento totale, poiché la prassi diffusa di cavalcare ogni onda pur di rimanere a galla può indurli a passare d’un balzo da destra a sinistra, dal secessionismo al nazionalismo, dallo statalismo al liberismo, dalla pace alla guerra… e ritengono sia un loro diritto farlo tra gli applausi. Applausi dovuti.

Un tempo i leader politici si sapevano muovere nell’ampia area grigia che separava l’amico dal nemico e li erano in grado di costruire nuove intese ed erigere sponde inedite. Oggi non ammettono sfumature: o sei amico, nel senso che gli dai sempre ragione, oppure alla prima alzata di sopracciglio precipiti nel girone infernale dei nemici assoluti. Chiaro che chi coltiva interessi che dipendono dal gradimento della politica tenda ad adattarsi. E se ha comprato un giornale per rendere più efficace il perseguimento dei propri interessi primari, lo userà come la politica odierna pretende venga usato. Cioè in maniera servile.

Con ciò si spiegano la particolare fatica e l’evidente precarietà dei direttori odierni. E si dimostra quanto errato sia l’approccio demagogico che da trent’anni a questa parte induce la maggior parte dei media a ritenere di potersi salvare (cioè incrementare le copie o lo share) denigrando la politica, ormai narrata come una questione che attiene quasi esclusivamente al privilegio e al malaffare. Pessimo calcolo di convenienza, essendo giornalismo e politica due facce della stessa moneta, sì che a svalutarne una si svaluta inevitabilmente anche l’altra.

Huffington Post

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