Premessa doverosa a scanso di equivoci: ammesso ne abbia mai realmente avuti, non ho rapporti politici con Azione dalle scorse elezioni. Non è, dunque, per fedeltà alla linea, e non può essere per piaggeria, scrivere che Carlo Calenda stavolta l’ha detta giusta. Il leader di Azione ha presentato un disegno di legge per vietare i social network ai minori di 13 anni e consentirne l’uso solo col consenso dei genitori dai 13 ai 15.
L’annuncio è stato accolto da un coro di polemiche, eppure una norma simile esiste già. Un regolamento europeo fissa a 16 anni l’età minima per iscriversi a un social. In Italia, grazie anche alle pressioni grilline, il limite è stato abbassato a 13 anni. Ma poiché i gestori dei social non controllano e i genitori spesso mentono, il risultato è che l’87% dei bambini tra i 10 e i 14 anni è iscritto a un social network. Il problema, dunque, è trovare il modo per rendere effettivo il divieto.
Ma che si tratti di un principio condivisibile e nient’affatto illiberale lo dicono i dati e ancor prima dei dati lo dicono le considerazioni dei tanti, tantissimi “pentiti del Web”. Così, alla rinfusa. Tim Berners-Lee, creatore del primo sito Web al mondo: «Il Web ha rovinato l’umanità invece di servirla… è arrivato a produrre un fenomeno che in larga scala è antiumano». Tim Kendall, ex direttore della monetizzazione di Facebook: «I nostri servizi stanno uccidendo le persone e le stanno spingendo a suicidarsi». Tristan Harris, ex dirigente di Google: «Squadre di ingegneri hackerano la psicologia delle persone per tenerle connesse e fargli fare quello che vogliono. Abbiamo creato un Frankenstein digitale incontrollabile». Sean Parker, creatore di Napster e primo presidente di Facebook: «Solo Dio sa i danni che i social network hanno creato al cervello dei nostri figli».
Quando, all’inizio della scorsa legislatura, avviai in commissione Istruzione del Senato l’indagine conoscitiva sull’impatto del Web nei processi di apprendimento dei più giovani, da cui il libro “CocaWeb, una generazione da salvare”, del fenomeno si parlava ancora poco. Ormai non si parla d’altro. Il tema è stato rappresentato con chiarezza dal World Happiness Report presentato nel 2019 alle Nazioni Unite. Uno dei suoi estensori, l’economista della Columbia University di New York, Jeffrey Sachs, l’ha messa così: «Dall’introduzione del primo iPhone in poi, abbiamo avuto un deterioramento misurabile nella felicità, soprattutto tra i giovani. Crescono le manifestazioni di ansia, stress, perdita di sonno, depressione. Peggiorano le interazioni sociali…”.
Da allora è stato un crescendo. Un’inchiesta del Financial Times ha messo in relazione i suicidi e i disagi psicologici dei più giovani con la loro frequentazione dei social e più in generale del web. Negli Stati Uniti sono già state intentate 147 cause collettive contro i Giganti del Web. La massima autorità sanitaria statunitense, il “Surgeon General”, ha accusato Facebook, Tik Tok, Instagram e via elencando di “arrecare gravi danni alla salute mentale dei giovani”. Dalla Francia al Regno Unito, nei parlamenti di mezzo mondo si discutono leggi volte a temperare un fenomeno la cui gravità è ormai di dominio pubblico e che la maggior parte dei politici tende ad ignorare per paura dell’impopolarità e/o per acquiescenza nei confronti della lobby più potente della storia umana, quella dei Giganti del Web.
Il punto, dunque, non riguarda il se, ma il come. Come impedire dal punto di vista tecnologico ed amministrativo che norme volte a proteggere la salute mentale e fisica dei giovanissimi vengano sistematicamente eluse.