Economia in guerra

Economia in guerra

Le perdite irreparabili, legate a una guerra, sono quelle umane. Le vite che si perdono e quelle che resteranno segnate per sempre. Tornerà la stagione della pace, ma le vite stroncare resteranno un danno intollerabile. Poi c’è il resto.

Ci sono gli enormi danni materiali, le macerie, le distruzioni. Sono cose che si ricostruiscono, ma con costi alti. I danni di guerra vanno sul conto di chi l’ha provocata. Si può essere più cinici: vanno sul conto di chi la perde. Studi economici ci dicono che, in realtà, per l’esperienza fin qui fatta, il vincitore che sottomette la vittima, indipendentemente dal torto, non ricava quanto ha dovuto spendere per distruggere. Dal punto di vista economico la guerra è un pessimo affare. Si deve, però, stare anche attenti a non mettere troppo sul conto del colpevole sconfitto (come sarà la Russia): alla fine della prima guerra mondiale si mise troppo sul conto della Germania e John Maynard Keynes avvertì che quella sarebbe stata una delle cause della seconda. Purtroppo ebbe ragione. Alla fine della seconda si evitò di commettere lo stesso errore, ma gli sconfitti rimasero (rimanemmo) divisi e nuclearmente disarmati. Non so a quanto ammontino i beni sequestrati ai gerarchi putiniani, denominati “oligarchi”, ma può essere incamerato e impiegato in Ucraina.

Alle distruzioni materiali in zona di guerra si aggiungono i danni economici collaterali. E qui ci siamo di mezzo anche noi. Il danno più grosso non si è provocato, almeno fin qui, ed ha molto a che vedere con i negoziati che coinvolgono Cina e Stati Uniti, ovvero la rottura della catena globale del valore. Sappiamo che è pericoloso dipendere da un solo produttore, di qualche che sia cosa, ma sappiamo anche che pensare di produrre tutto in casa significa vivere poveramente e consumare miseramente. La globalizzazione è ricchezza. Ma funziona con la pace, per quanto armata. Ha resistito alla pandemia, preserviamola dalla criminalità di Putin.

Un danno notevole, comunque, si avrà sul fronte delle materie prime. Sia per mancata produzione, come ad esempio per il grano o il mais, sia perché il dovere drasticamente tagliare degli approvvigionamenti, come per il gas e il petrolio, significa ristrutturare i rapporti commerciali, vedendo crescere il peso negoziale di altri interlocutori. Tutta roba che costa, indebolendo la crescita. Tutta roba alla quale si deve far fronte e serve a poco far proclami apocalittici, come sembra essere il presente costume di Confindustria: non l’abbiamo voluta noi, dobbiamo sconfiggere l’aggressore, non possiamo che riadattarci. Le attuali previsioni pongono la crescita del prodotto interno lordo, in Italia e per quest’anno, intorno al 3%. Quindi con un doloroso ridimensionamento delle attese e, attenzione, nell’ipotesi che il crimine si fermi nel giro di  due o tre mesi. Altrimenti la discesa delle speranze sarà più significativa.

Quel che i governi possono fare è attutire il colpo, un po’ come i sacchi di sabbia dietro la finestra non fermano il bombardamento, ma ne mitigano gli effetti. E qui la faccenda si fa delicata. Evitare che l’edificio crolli per le bombe non è un buon motivo per dargli fuoco. La crescita sarà rallentata, mentre l’inflazione accelerata. Brutta cosa. Oramai, in Unione europea, siamo al livello del 7%. Non di meno non possiamo varare delle strette, perché aggraverebbero la perdita di crescita. La guerra distrugge.

Troppo facile dire: allarghiamo il debito (che è la dicitura corretta dell’ipocrita “scostamento di bilancio”). Ne abbiamo uno enorme e allargarlo ancora porta sulla strada della compensazione con risparmi e patrimoni. È già successo, con le guerre. Pericolosissimo. Si deve, invece, rimodulare la spesa preservando gli investimenti, mettere in cantiere la difesa europea comune e darle una comune industria, che per noi significa crescita. Si deve recuperare dinamismo dove la guerra non colpisce, con la concorrenza. E in tal senso la somma degli emendamenti che pendono sul disegno di legge che prova a innovarla è preoccupante. Anche perché equidistribuita fra le forze politiche.

In stagioni come questa la classe dirigente esiste se sa guardare oltre, al dopo. Altrimenti, vivendo alla giornata, si subiscono le conseguenze peggiori.

La Ragione

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