Einaudi, il presidente della ricostruzione e della ragione

Einaudi, il presidente della ricostruzione e della ragione

Diventato cattedratico a soli 28 anni, da senatore nel 1925 firmò con croce il “Manifesto degli antifascisiti”. Poi nel ’48 fu eletto Presidente della Repubblica: grazie al suo settennato per l’italia si aprì la strada verso il miracolo economico. Luigi Einaudi raccontato da Carlo Nordio

Leggete attentamente, dal Corriere del 1 febbraio 1919 : «Il governo impedisce con i suoi vincoli il movimento a chi avrebbe voglia di agire, prepara disastri al Paese, accolla sempre nuovi oneri alle industrie mentre le riduce all’insolvenza non pagando i debiti… e tutto ciò accade perché a Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali ignorano in special modo la verità fondamentale: che ognuno di noi deve confessarsi ignorante di fronte al più umile produttore, il quale rischia lavoro e risparmio nelle sue intraprese». Firmato: Luigi Einaudi. Sono parole che, a parte il lessico vagamente classicheggiante, sarebbero attuali anche oggi. Diremmo: soprattutto oggi, quando una viceministra dell’economia, ignorando le regole minime di questa disciplina complessa, polemizza in modo arrogante con un professore che ha due volte la sua età e mille volte la sua competenza. Ma torniamo all’autore di questi saggi ammonimenti. Luigi Einaudi era nato a Carrù il 24 Marzo 1874, da una famiglia di notabili piemontesi, da cui ereditò – oltre all’intelligenza – la parsimonia, il rigore etico e il senso dello Stato. Studiò economia e finanza, e a 28 anni era già
cattedratico universitario.

Professore

Scrisse da professore, e pubblicò da giornalista: il suo non era propriamente un argomentare divulgativo, né la materia vi si prestava. Ma in breve tutti, in Italia e all’estero, ne riconobbero l’autorità. Fu nominato senatore, e firmò, con Benedetto Croce, il manifesto degli antifascisti nel 1925. Il regime lo lasciò (relativamente) in pace, anche se lui continuò a dissentire su argomenti che ad altri sarebbero costati quantomeno la cattedra: votò contro l’intervento in Etiopia e contro le leggi razziali. Alla fine, nel 43, dovette emigrare in Svizzera. Nel frattempo continuò a scrivere a studiare, battendosi contro ogni forma di ideologia totalitaria e di asfissiante burocrazia: vedeva nel comunismo, nel fascismo, e più in generale nell’interventismo statale i mali del tempo. Cattolico, riconosceva nella Ragione l’unico strumento per scienza e conoscenza. «Il metodo di libertà – scrisse – si fonda sul principio del tentativo e dell’errore» Anticipando Popper, aveva sostenuto che lo scienziato auspica che altri tentino di dimostrare i suoi errori e di scoprire «la via buona della verità».

Il compito

Finita la guerra Einaudi fu nominato Governatore della Banca d’ Italia, con l’arduo compito di rimetter in sesto le disastrate finanze del Paese; ci riuscì coniugando il rigore del contabile con lo stimolo del liberista. Riconoscente, De Gasperi lo portò al governo; nel frattempo era anche stato eletto, con un ridotto manipolo dell’Unione Democratica Nazionale, all’Assemblea Costituente. Qui l’impenitente liberale partecipò quasi sempre ai lavori, e i suoi interventi sull’ordinamento dello Stato brillarono per chiarezza e raziocinio. Patrocinò il sistema del collegio uninominale, nella benemerita e illusoria speranza di svincolare gli eletti dall’invasiva disciplina di partito; si batté per definire i poteri delle regioni, denunciando i pericoli degli statuti speciali che avrebbero determinato un collasso di reddito tributario e una valanga di aiuti onerosi; derise il concetto di utilità sociale dell’iniziativa economica privata, ricordando che se ne discuteva dai tempi di Bentham senza averne mai trovato una definizione attendibile; votò (in dissenso da Croce) a favore della costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi, ma sollecitò un accordo tra Stato e Chiesa per eliminare la vergognosa interdizione all’insegnamento dei sacerdoti sospesi, e in particolare di Ernesto Buonaiuti; e infine riuscì a far passare il fondamentale art 81 sull’obbligo di copertura di nuove spese.

La norma

Una norma peraltro platonica che, come è noto, fu largamente violata nei decenni recenti. Tutto sommato, limitò i danni del connubio tra le due ideologie dominanti della Democrazia Cristiana e dei comunisti, divise su tutte tranne sul punto di considerare il cittadino subordinato a interessi trascendenti, fossero il Padre Eterno o lo Stato sociale. Allo scadere del provvisorio mandato di Enrico De Nicola, questo matrimonio si era già rivelato per quello che era: una necessitata unione di comodo, un po’ come quella oggi tra Di Maio e Salvini. Ma poiché all’epoca la caratura intellettuale e la cultura politica erano ancora dominanti tra i rappresentanti del popolo, il conflitto fu gestito senza clamori rivoluzionari, e del resto il Pci aveva già esaurito la sua carica aggressiva negli sciagurati disordini dell’anno prima.

Lo scrutinio

Così Einaudi fu eletto Presidente della Repubblica l’undici Maggio 1948, al quarto scrutinio. La sinistra manifestò il suo dissenso in modo pacifico e originale, votando Vittorio Emanuele Orlando, il vecchio liberale che aveva riempito di lacrime i tavoli di Versailles alla conferenza di pace del 19, suscitando i sarcasmi velenosi di Clemenceau che, affetto da ipertrofia prostatica, si rammaricava di non potersi liberare la vescica con la stessa facilità con cui Orlando svuotava le sue ghiandole lacrimali. Non sappiamo se questa decisione di Togliatti fosse un ossequio ironico o rabbioso ai vecchi
rappresentanti di un mondo tramontato. Comunque il Migliore incassò bene, e tutti applaudirono il nuovo Presidente. In effetti la Repubblica non poteva avere rappresentante migliore. I suoi sette anni – visti a ritroso dopo le interferenze di Gronchi, di Cossiga e dei suoi successori – possono esser definiti come di distaccata imparzialità. Questo è vero, se la intendiamo come rigoroso rispetto delle competenze istituzionali, ma non lo è se pensiamo a Einaudi come a uno spettatore notarile delle vicende politiche. Esercitò – lui, che aveva votato per la Monarchia – un pressante controllo sull’attuazione della Costituzione Repubblicana, e vigilò con scrupolo sulla materia che più gli stava a cuore: il Paese da ricostruire e le finanza da consolidare.

Per merito suo, l’Italia si indirizzò verso quel miracolo economico che ne avrebbe aumentato enormemente l’attività produttiva, migliorando la vita soprattutto dei più umili e conferendo alla nostra moneta una stabilità che le valse il premio mondiale. Le sua visone liberale può esser riassunta in queste sue parole, pubblicate sul giornale di Gobetti il 18 Dicembre 1923: «Le mie idee madri sono lo scetticismo invincibile, anzi quasi la ripugnanza fisica per il benessere che si vuol procurare con le leggi, col collettivismo e con l’intermediazione degli sfaccendati politici; e la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé, e in questo sforzo lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere e a perfezionarsi». Un’altra predica inutile, mentre sul Paese incombe oggi lo spettro assistenzialista e sprecone del reddito di cittadinanza.

Carlo Nordio

Il Messaggero, 1/12/2018

 

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