Una giornata nei campi della Pianura padana durante la raccolta di pomodori può aiutare. Può aiutare ad abbandonare ideologie e pregiudizi verso una delle attività umane più importanti e allo stesso tempo mistificate: l’agricoltura. Nel coltivare prodotti buoni e sani per tutti, utili anche a mantenerci in buona salute, in quei campi si consumano la fatica e l’ingegno di un’imprenditoria che studia terra, varietà, parassiti, al fine di elaborare le migliori tecniche agronomiche per “nutrire il mondo” al minor costo possibile per l’ambiente e per i cittadini. Con il lavoro dei terzisti specializzati (un esempio di quanto le specializzazioni contino in ogni ambito) i campi raggiungeranno una maturazione omogenea e i pomodori verranno raccolti. Per giorni e notti, caricati negli autorimorchi, verranno scaricati nelle aziende che li trasformeranno in prodotti pronti per essere consumati.
Chiedo cosa sarebbe di questo lavoro, dei pomodori, delle centinaia di fusti pieni, ordinatamente disposti nel cortile, se venisse vietato l’impiego di una delle sostanze più efficaci ed economiche (perché libera da brevetti), dal profilo tossicologico fra i più rassicuranti, nonostante la demonizzazione mediatica cui è sottoposta: l’erbicida glifosato. Dal terzista al responsabile dell’azienda di trasformazione che vanta – mi spiega orgoglioso – anche compratori giapponesi, la risposta è seria, ferma, univoca. Vorrebbe dire affossare un’agricoltura già in difficoltà. Non si scherza con i campi, mi rispondono.
Chi volesse informarsi aldilà delle ideologie potrebbe parlare con questi imprenditori agricoli i quali non avrebbero difficoltà a spiegare che il rispetto dell’ambiente, della fertilità del suolo e della biodiversità non passa dalla messa al bando dell’erbicida glifosato, che è stata proposta solo poche settimane fa da una mozione in Senato. Né passa – come vorrebbe una legge già approvata alla Camera e in discussione in Senato – dalla conversione massiva dell’agricoltura italiana al biologico.
Basterebbe guardare le immagini stilizzate, dette pittogrammi, riportate sulle etichette dei prodotti fitosanitari usati in agricoltura, che indicano i pericoli intrinseci dei formulati tal quali, cioè prima della diluizione e applicazione in campo.
Confrontando le avvertenze presenti sulle etichette dei formulati a base di glifosato con quelle dei prodotti fitosanitari ammessi in agricoltura biologica salta facilmente all’occhio qualcosa che, a dare ascolto alla “narrazione” prevalente, mai ci aspetteremmo: alcuni prodotti “bio” presentano pericoli nettamente maggiori per la salute umana e/o l’ambiente. Parliamo di formulati a base di estratti di piretro, di sali di potassio degli acidi grassi, di Paecilomyces lilacinus ceppo 251, di diversi feromoni, di alcuni formulati a base di spinosad, nonché di altri contenenti olio essenziale di arancio dolce oppure azadiractina, ad esempio, che hanno in comune l’indicazione di pericolo per l’ambiente, vale a dire l’immagine dell’albero secco e del pesce morto. Nei tanto usati prodotti a base di rame, poi, a questo si aggiunge il pittogramma indicante la possibilità che causino irritazioni oculari.
Se passiamo al pericolo per la salute, le conclusioni dei circa venti organismi nazionali o sovranazionali preposti alla valutazione del rischio che hanno emesso un parere sul glifosato sono concordi nell’indicare che quest’ultimo non è certamente cancerogeno, né tanto meno lo sono gli infinitesimali residui che se ne possono rinvenire, insieme a quelli di molti altri agrofarmaci biologici o di sintesi, sui prodotti dell’agricoltura. L’unica agenzia, la Iarc, che ha classificato il glifosato tra le sostanze “probabilmente cancerogene per l’uomo”, ha basato la sua valutazione solamente sul concetto di “pericolo”, che è la potenzialità astratta di una sostanza o di un’azione di causare un “rischio”, ossia la probabilità reale di conseguenze indesiderate che possono derivare da una determinata condotta o esposizione a una sostanza o a un prodotto ne hanno escluso i rischi alle normali dosi d’uso, sulla base di numerose prove scientifiche.
Da anni, grazie al supporto di esperti del settore e al continuo studio delle evidenze scientifiche via via disponibili, mi sono avvicinata alla complessità e alle necessità dell’agricoltura e tento di stimolare una discussione costruttiva su questo tema, in pubblico e in Parlamento, partendo da prove e dati verificati e accessibili. Da anni, però, mi scontro con un approccio ideologico che, costruito come una “bella favola” da raccontare, fatica a trovare riscontro concreto nella scienza e nella pratica quotidiana di chi in quei campi lavora e studia.
È successo anche di recente quando, in Senato, di fronte ad una mozione sul glifosato che ne chiedeva la messa al bando immediata, ne ho presentata una, a mia firma, che impegnava il governo a subordinare ogni decisione relativa al suo impiego in agricoltura (o nel diserbo delle aree pubbliche, dai giardini alle autostrade alle ferrovie, fino agli aeroporti) allo studio delle evidenze scientifiche ad oggi disponibili e al confronto – in termini di impatto ambientale, economico e sanitario – con prodotti e pratiche “alternative”.
La discussione in Senato sul glifosato si è conclusa – non senza contraddizioni – con il voto favorevole del Parlamento a tutte le mozioni. Comunque la si pensi, l’impegno del Governo allo studio delle evidenze scientifiche ad oggi disponibili dovrebbe essere un interesse condiviso da chi ambisca a una politica basata sui fatti e non sulle opinioni. Compresi tutti coloro che, sulla stampa e in Parlamento, sostengono l’esistenza di correlazioni fantasiose quale quella fra glifosato e autismo, glifosato e “contaminazioni” dei vaccini o glifosato e Covid-19.
Nell’estate del 2017 il Parlamento fu animato da un intenso dibattito che si concluse con l’approvazione di una legge di buon senso, quella per la reintroduzione dell’obbligo vaccinale per la popolazione in età scolare. La politica assunse una decisione, declinandola sulla base di prove scientifiche universalmente riconosciute. Qualunque sia la lettura che in tanti hanno tentato di dare alla mia iniziativa parlamentare, con quella mozione il Parlamento chiede oggi al governo di agire con lo stesso metodo, cioè di “conoscere per deliberare”, avvalendosi delle evidenze scientifiche disponibili come base preliminare di discussione per le decisioni politiche. Niente di più, ma anche “niente di meno”. Circostanza, evidentemente, indigesta per alcuni appassionati narratori.
Elena Cattaneo
Il Messaggero, 24/08/2020
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