«Non disturbare chi vuole fare» è il motto dell’attuale esecutivo. Lo ha spiegato Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento il 25 ottobre scorso. Alla luce dell’azione di governo svolta sin qui, però, la logica che sembra prevalere è un’altra, ossia «non disturbare chi vuole fare, ma solo se sta già facendo». Sotto questo aspetto, la questione dei balneari è emblematica. Meloni ha (giustamente)bloccato (per quanto ancora?) il tentativo dei due partiti alleati, Lega e Forza Italia, di estendere oltre il 31 dicembre 2023 la proroga alle concessioni. Lo stop, tuttavia, non rappresenta un cambio diposizione. Semplicemente un modo per prendere tempo (i decreti legislativi sono stati rinviati di qualche mese) e trovare una soluzione duratura. L’obiettivo, ha spiegato la leader di Fratelli d’Italia, «è mettere in sicurezza quegli imprenditori. Vanno difesi da una direttiva che non andava applicata». In buona sostanza, i balneari che vogliono fare non devono essere disturbati.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: e gli altri? Chi difende coloro che attualmente non fanno ma che vorrebbero fare? E che sia chiaro: raggruppare questi potenziali imprenditori sotto un’unica categoria, quella delle multinazionali che comprano le nostre spiagge per pochi soldi, è davvero fuorviante. Vi sono tanti giovani capaci che vorrebbero iniziare un’attività. Se non diamo loro la possibilità di entrare nel settore una volta che si sono formati, inutile parlare di merito. Una parola, che val la pena ricordare, Meloni ha voluto aggiungere nella denominazione del ministero dell’Istruzione. Peraltro, garantendo pari opportunità di accesso per tutti, non solo per gli insider, si crea un circolo virtuoso che genera benefici per l’intera collettività, a cominciare dai consumatori in termini di minori prezzi e maggiore efficienza dei servizi offerti. Si chiama concorrenza.
L’alternativa è quella di tutelare e, di conseguenza, avvantaggiare solo pochi privilegiati. Ma così non si cresce. La premier sembra esserne consapevole. Lo dimostra la posizione assunta su un altro versante, quello degli aiuti di Stato. Meloni è contraria a un mero allentamento della normativa europea perché, ha spiegato, «determinerebbe una distorsione del mercato interno». I Paesi con spazio fiscale, quindi con basso debito ed elevata capacità di spesa, possono sostenere dipiù e meglio le proprie imprese. Una dinamica che si è già verificata nel passato biennio in cui le regole comunitarie sono state sospese: basti pensare che le imprese tedesche e francesi hanno ricevuto il settantacinque per cento degli aiuti. Proseguire su questa strada significherebbe far saltare il mercato unico, la libera concorrenza. Non è questo il modo per «risolvere il problema della scarsa competitività delle nostre aziende» ha ammonito Meloni. C’è, allora, da chiedersi perché chi è alla guida del nostro Paese invochi (giustamente) in sede europea uguali opportunità ma, poi, in casa protegga una determinata categoria di imprenditori a danno di altri? Agli occhi dei nostri partner questa “distinzione” è difficile da comprendere. Per questo il negoziato sul pacchetto di aiuti per sostenere l’industria europea rischia di partire in salita.
Un gruppo di Paesi, tra cui l’Italia, vorrebbe istituire un Fondo sovrano europeo alla stregua di quello creato per il Next Generation Eu (Ngeu). L’idea di nuovo debito comune è, invece, invisa a (molti) Paesi del Nord che sono già contributori netti del Ngeu. Prima di erogare nuovi finanziamenti vogliono essere certi che questi strumenti siano in grado di garantire la convergenza delle economie dell’Unione. Che cosa significa? I fondi devono servire a colmare i divari di crescita di chi è rimasto indietro. Solo per fare un esempio, devono essere utilizzati per far crescere le imprese vincenti non per tenere in vita quelle decotte. Ciò rafforza i singoli Stati membri e l’Europa nel suo insieme. Nella pratica, i governi beneficiari netti, come quello italiano, devono proseguire nel percorso di investimenti e riforme. Come è noto, la concorrenza è una delle priorità del nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Le concessioni balneari non ne fanno parte. Ma, certamente, le resistenze dell’attuale governo a metterle a gara non lasciano ben sperare sulla volontà reale di cambiare una volta per tutte l’economia.