Sarebbe un discreto paradosso storico se proprio le istituzioni create in Francia, alla fine degli anni Cinquanta, dal generale Charles de Gaulle, il fondatore della Quinta Repubblica, servissero oggi a favorire un salto di qualità dell’integrazione europea, a pungolare l’Europa costringendola a fare passi importanti in direzione dell’unione politica.
Il generale non credeva affatto in una Europa sovranazionale, la pensava solo come la casa comune di un insieme di Stati sovrani (che dello Stato sovrano avrebbero mantenuto le prerogative).
Eppure, è proprio grazie alle istituzioni golliste che l’attuale presidente Emmanuel Macron ha potuto pronunciarsi solennemente a favore della «sovranità europea», in un discorso alla Sorbona del 26 settembre, forse, chissà?, destinato a passare alla storia.
Macron ha prefigurato un’Europa politica in grado di fronteggiare le sfide che incombono: una vera difesa comune, la capacità di controllare i confini esterni, innovazioni istituzionali per completare l’integrazione economico-finanziaria, governare la rivoluzione digitale, fronteggiare i mutamenti climatici.
Se solo il 10% di quanto proposto da Macron venisse realizzato, l’integrazione europea farebbe grandi passi avanti. Ma non è questo oggi il punto interessante. È interessante il fatto che solo il Presidente francese, fra tutti i capi di governo europei, disponga in questo momento della capacità «politico-istituzionale» necessaria per muoversi efficacemente in Europa.
La qualità degli uomini è sempre importantissima e Macron non è Hollande. Ma senza le istituzioni volute da de Gaulle neppure un Macron potrebbe combinare molto.
Con l’eccezione della Francia, il panorama è desolante.
La Gran Bretagna sta togliendo il disturbo (un guaio per noi italiani che non avremo sponde, e quindi margini di gioco, tutte le volte che francesi e tedeschi si metteranno d’accordo su questo o quel tema).
La Spagna che — comunque vada a finire il braccio di ferro fra Madrid e Barcellona ne uscirà assai indebolita — non sarà a lungo un giocatore di qualche peso in Europa…
L’Italia, come è suo costume, vive precariamente. Danza, come al solito, con la sua cronica instabilità e il suo debito pubblico, sull’orlo del solito precipizio. Pochi scommettono su un suo futuro di stabilità e governabilità. In queste circostanze, anche il ruolo dell’Italia in Europa è destinato a restare volatile e precario.
Infine, nella Germania traumatizzata dai risultati elettorali che hanno visto una forte affermazione di un partito anti-establishment, si formerà forse, dopo lunghe trattative, un governo di cani e gatti (verdi, liberali, cristiano-sociali) guidato da una Merkel politicamente usurata e difficilmente destinato a fare scelte coraggiose in Europa.
La verità è che Macron, in Europa, è solo. Grazie a istituzioni che non garantiscono ma permettono una forte concentrazione del potere nelle mani del Presidente, Macron dispone di una libertà di manovra che oggi manca, per una ragione o per l’altra, ai leader degli altri principali Paesi europei.
Forse quella libertà di manovra gli consentirà di trascinarsi dietro una riluttante Germania e gli altri, sul solco del discorso della Sorbona.
Questa verrebbe considerata una buona cosa per l’Unione Europea da (quasi) tutti gli europeisti. Sempre che si pensi — ma non è il pensiero di chi scrive — che un’Europa fin troppo influenzata dalla tradizione statalista francese, senza più nemmeno i correttivi imposti dal liberalismo britannico, sia una ipotesi davvero attraente.
Non è detto, d’altra parte, che Macron riesca a imporsi in Europa.
La debolezza degli altri, anziché un vantaggio, potrebbe risultare un ostacolo. I vari governi potrebbero essere troppo condizionati dalle lotte di fazione a casa loro per essere in grado di sottoscrivere decisioni innovative a Bruxelles.
L’uscita della Gran Bretagna lascia in Europa una sola autentica «democrazia maggioritaria»: la Francia, con il suo sistema elettorale (maggioritario a doppio turno) e con il suo presidenzialismo. Con la capacità, propria delle democrazie maggioritarie, di mettere «un uomo solo al comando»: una virtù politica in Francia e in Gran Bretagna ma anche, come sappiamo, un terribile vizio, qualcosa di paragonabile al fascismo o giù di lì, per tanti italiani.
Le democrazie europee, tutte, devono oggi fronteggiare sfide potenti: insicurezze collettive, declino delle fiducia di rivelanti porzioni del pubblico nelle virtù della democrazia rappresentativa, rampanti movimenti anti-sistema.
Queste sfide possono essere più facilmente riassorbite grazie alla flessibilità propria delle democrazie proporzionalistiche o alla rigidità delle democrazie maggioritarie?
Serve di più il fatto che le prime riescano talvolta (ma non sempre) ad assorbire le spinte antisistema e ad addomesticarle, pagando però il prezzo di una elevata instabilità e di una bassa capacità decisionale? Oppure serve di più il fatto che le democrazie maggioritarie riescano talvolta (ma non sempre) a fronteggiare con efficacia le sfide grazie alla stabilità politica e alla capacità di governo?
Il dibattito è aperto.
Sarà un buon test guardare Macron all’opera, capire, soprattutto, se avrà successo o no il suo programma di riforme interne. Sarà allora anche possibile giudicare la sua presidenza. Quel giudizio, a sua volta, servirà agli altri europei. Anche a quegli italiani che sembrano talvolta inconsapevoli dell’importanza delle istituzioni. [spacer height=”20px”]
Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 9 ottobre 2017