Non si tema il fascio mascelluto ma lo sfascio ripetuto
Non vedo sopraggiungere regimi, semmai un riconvertirsi a nuovi mangimi. Comprensibilmente, il vantaggio elettorale della destra che fu fascista pone il tema del passato che torna. Tanto più che, fra i ruderi del secolo scorso, fra i rifiuti della storia, sia chi fu fascista che chi fu comunista ha serie difficoltà a riconoscere l’empietà dell’errore, perché dovrebbe riconoscere come sbagliata la propria identità.
Mai sottoposta a seria revisione. Solo taluni grandi ci riuscirono, senza attendere il crollo nell’infamia dei rispettivi (e non diversi) incubi. Comprensibile, ma non giustificabile. Perché porre in questi termini la questione significa ignorare cosa fu il fascismo.
Lo vide benissimo un giovane, che pagò con la vita il saper guardare l’Italia, Piero Gobetti: il fascismo è l’autobiografia della nazione. Era il prevalere della “Italia che non ci piace”, per dirla con Giovanni Amendola, anche lui ucciso dalle squadracce. Ma se era autobiografia, come s’è potuto credere che si cancellasse? Si è potuto coltivare l’illusione, o piuttosto l’inganno, perché si è voluto ignorare il lavoro di Renzo De Felice, non a caso isolato dalla storiografia di stampo marxista. Quelli determinanti furono gli anni del consenso, non quelli degli stivaloni e dei manganelli. A segnare la storia fu l’entusiasmo delle masse, non le costrizioni censorie. Nessuno sensato crede che tornino le seconde, ma neanche crede che sia sparita l’Italia delle prime.
Dove la si vede, oggi? I quattro cretini che vanno a Predappio sono ridicoli nel loro orrore zotico. La si trova nel piagnucoloso vittimismo della nazione trascurata, frammisto al delirio della sovrana illimitata. Nell’accattonaggio che reclama fondi e nella prosopopea che rifiuta controlli. Nella svendita della sovranità mediante debito e nell’indebitarsi per avere sovranità. Nel volere chi “sbatte i pugni” e finire con lo sbattere la testa. Nell’avversione alle multinazionali sopruso dei popoli, che toglie all’Italia le multinazionali autoctone.
Nell’inseguire gli umori più bassi, pretendendo d’elevarsi. Nella furbizia untuosa di chi deride il vincitore nel mentre sbava per riceverne una prebenda. Nella condanna dei compromessi e delle mediazioni, per ritrovarsi con compromettenti azzardi. È l’Italia meschina, dei simboli senza sostanza. Ma è anche l’Italia che per giustificare sé stessa deve mistificare la storia, come il pretendersi patrioti ed avere nel simbolo il ricordo di chi la Patria la svergognò, come il confondere il mazzinianesimo con il bigottismo papalino.
Magari questa paccottiglia stesse solo da una parte, che, invece, si ritrova nelle anticamere del clientelismo e nei moti plebei del reddito senza lavoro, nell’autarchia d’importazione e nell’antistatalismo con quattrini statali. Il ceto presunto culturale che fu fascista e si riscoprì comunista era così ignorante da non riuscire a riconoscersi coerente: la stessa infatuazione per un mito e lo stesso disprezzo per la vile realtà. Che non sia quella della propria convenienza.
Non torna il maschio fascismo mascelluto. Ma è ancora da cacciare il fascino scellerato che ha il mascherare da superiorità la propria incapacità, da spocchia millenaria il servilismo permanente, da lamentazione vittimista l’essere vittima della propria incapacità. Non torna il fascio, ma non ci si è liberati da questo sfascio.