Fatto un tubo

Fatto un tubo

Che sia piovuto e nevicato poco ce ne siamo accorti. Che vi sia, quindi, un allarme siccità è normale. Tutto il resto no, però. Perché non si può, ogni anno, ripetere la stessa scena e, conseguentemente, dire le stesse cose.

Dal cielo è caduta poca acqua, ma noi ne raccogliamo a malapena l’11%. Vale a dire che l’89% va disperso. Basterebbe far crescere la capacità di raccolta, conosciuta fin dalla notte dei tempi, e la penuria sarebbe meno drammatica. Non bastasse questo, quella che abbiamo la sprechiamo: prima di arrivare a destinazione finale il 36% (40 in agricoltura) si perde lungo la strada, 41 metri cubi per chilometro, in acquedotti che non sono solo meno belli, ma anche meno efficienti di quelli che costruivano gli antichi romani. 1 miliardo di metri cubi che se ne vanno in rivoli fangosi, quando non a irrigare e irrorare chi si è affidato ai malavitosi.

Quella che arriva ai rubinetti, dopo lo sciupio, la paghiamo poco: in media 2.19 euro al metro cubo (Francia 3.49; Germania 4.37; Olanda 4.89; Danimarca 6.28). La paghiamo meno non perché ne abbiamo in maggiore abbondanza, giacché la pagano ben di più i cittadini di Paesi con maggiori risorse idriche, ma perché lo consideriamo un bene senza valore particolare. Nonostante scarseggi. Il principio secondo cui “l’acqua è di tutti” s’è tradotto nella sua ovvia versione prosaica: non è di nessuno. Così passiamo da un allarme siccità all’altro, ma restiamo i primi consumatori pro capite europei di acqua. Tanto costa poco.

Questo, però, non significa che noi si spenda in acqua meno di altri, anzi produce il contrario, perché siamo i primi consumatori europei di acqua minerale imbottigliata. Pro capite non ci batte nessuno. La Spagna al secondo posto e la Germania staccata in terza posizione. Ma non basta, perché il consumo è cresciuto enormemente e continua a crescere. In pratica l’acqua è un bene comune, ma quella da bere voglio che sia mia. Partendo da una sfiducia ingiustificata in quanto alla qualità dell’acqua del sindaco.

Non si può chiedere ai cittadini di fare la danza della pioggia, ma agli amministratori di non far ballare i tubi sì che si può chiedere. Perché la gran parte di questo vitale e mal ridotto mercato è in mano ad aziende municipalizzate, tenute a praticare prezzi amministrati. Alcune di queste società sono anche quotate in Borsa, tanto che ci si domanda cosa s’intenda per “acqua pubblica”. Purtroppo s’intende: intestazione pubblica delle azioni e assenza di efficienza nella gestione. Anziché conciliare la finalità pubblicista con la gestione privatista abbiamo finito con il pubblicizzare le perdite e proteggere le disfunzioni.

Il quadro che ne deriva è orrido: costa poco e quindi io consumatore ne spreco tanta; rende poco e quindi io amministratore ne spreco ancora di più. Nello stesso Paese in cui l’acqua minerale furoreggia.

Approssimandosi l’estate evitiamo di perderci nelle solite prediche moraliste, giacché la differenza fra l’uso e lo spreco non la fanno i sermoni o l’orecchio sudicio e l’occhio cisposo, ma il prezzo da una parte e la redditività dall’altra, mentre l’accordo fra alto spreco e basso prezzo è suicida. I fondi europei di Ngeu sono, anche in questo caso, l’occasione per sanare una piaga, ma non solo si deve essere capaci di spenderli in investimenti, quindi in acquedotti decenti (ne paghiamo uno per importare acqua dall’Albania!), si deve poi essere in grado di manutenere i beni ed evitare che ri-colassino. Il che comporta il ripensamento dell’insensato ginepraio delle municipalizzate.

Questo nel caso in cui si voglia affrontare il problema con l’idea di risolverlo. Se invece si vuole solo parlarne per maledire il cielo e pensare che la colpa sia dell’inquinamento, salvo poi comprare milioni di bottiglie di plastica e rifiutare come sopruso ogni efficienza energetica, allora ci si goda pure la lagna dei fiumi a secco e si anneghi con comodo nella geremiade siccitosa. Ottima premessa per vedere crescere i prezzi alimentari estivi.

La Ragione

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