Un caudillo nazionalista che vestì i panni del comunista, per fondare e reggere la più longeva dittatura latinoamericana. Poi consegnata nelle mani del fratello. La cosa più interessante di Fidel Castro non è il brutale dispotismo con cui è riuscito ad annientare le libertà di Cuba, regredendo anche rispetto al già corrotto governo di Fulgencio Batista, consegnando i cubani a una miseria profonda e disperante. Quella è pratica antica, che lui seppe condire con i colori di una ideologia che gli servì per cercare (senza riuscirci) di allargare il suo ruolo nel mondo.
La cosa più interessante è la fascinazione esercitata, da questo despota logorroico, su tanta parte del mondo culturale e politico d’Occidente. Non contavano i gelidi lager tropicali o l’umida tomba del Morro, dove venivano rinchiusi i dissidenti. Non bastavano le condizioni di vita dei cubani. Non bastava il disfacimento di una capitale meravigliosa, L’Avana.
Non bastava mai niente, perché la colpa era sempre di altri. Soprattutto era colpa degli americani e dell’embargo. Che aveva fatto, di male, Castro? Cosa gli rimproverava, il bieco imperialismo statunitense, se non il suo anelito di libertà? Magari, forse, il volere schierare missili nucleari sovietici a Cuba. Quella stessa roba che fu schierata contro noi europei. Così, per dirne una. Ma non c’era ragionamento capace di tenere. E non c’è, neanche nell’odierno cordoglio. Cui non mi associo. Per tutta una fetta del nostro mondo quel dittatore era e resta un eroe.
La colpa era sempre di altri. Soprattutto era colpa degli americani e dell’embargo
La ragione di ciò va cercata nel fatto che una parte del nostro mondo ci detesta, incarnando questo sentimento autodistruttivo nell’antiamericanismo. Come poi è divenuto avversione alla globalizzazione, ovvero alla nostra vittoria su quello di cui Castro era degno cittadino: il mondo della guerra fredda. Che la libertà stia in uggia ai despoti è facile da capirsi. Che la libertà indispettisca, talora, i liberi e i liberati, è cosa da meditare.
Lo scrittore Reinaldo Arenas toccò con mano entrambe le cose: la ferocia della repressione cubana e l’incredibile ammirazione che suscitava fra i liberi. Uno dei suoi libri s’intitola Ante che anochezca, «Prima che sia notte». Scriveva nascosto su un albero, prima che il buio sopraggiungesse. I suoi manoscritti venivano sequestrati e distrutti. Finì al Morro, anche perché omosessuale. Fuggì. Si ritrovò a New York, nel corso di una ricca serata letteraria, con abbondanti libagioni. Alcuni ospiti, con il piatto in una mano, gli chiesero ragione della sua avversione a Castro, prendendola per un’impuntatura ideologica (quindi reazionaria). Non si scompose, prese il piatto dalle mani del suo interlocutore e lo scaraventò contro al muro: se intende difendere la Cuba di oggi faccia la fame, come i cubani di oggi.
Ma non c’è verso: per alcuni resterà il compagno Fidel, per altri il carnefice Castro. La distanza storica aiuterà a valutarlo più freddamente: un caudillo che si appoggiò ai nemici della democrazia, rendendo quel paradiso terreste un regno della miseria, pur di conservarlo come il suo regno. Morto lui, ai cubani non resta che liberarsi dalla dinastia.
Davide Giacalone, Il Giornale 27 novembre 2016