Basta parlare di flussi e parte il deflusso di coerenza e sincerità, generando un gorgo d’ipocrisia. Al Consiglio dei ministri dovrebbe arrivare il decreto con cui si stabilisce quanti immigrati potranno regolarmente entrare, nel corso del 2022. Ma basta il titolo per far partire le polemiche inutili.
Durante il primo governo Conte, con Matteo Salvini vice presidente e ministro degli interni (l’amministrazione preposta alla quantificazione dei flussi), era stato varato un decreto che fissava il tetto massimo a 30mila. La buona notizia è che si riconosceva sia l’utilità della quantificazione che l’opportunità di non chiudere le frontiere a quegli ingressi. La notizia curiosa è che il medesimo governo, nel Documento di economia e finanza, stabiliva che per far tornare i conti previdenziali sarebbe stato necessario farne entrare 165mila ogni anno. Quel decreto è stato abrogato, mentre l’attuale governo, nella cui maggioranza c’è anche la Lega e sempre nello stesso documento (Def), stabilisce che ce ne vogliono 170mila. Ogni anno, tutti gli anni, per almeno trenta anni. Sempre il governo in carica sembrerebbe ora orientato a predisporre ingressi per 80mila. Ovvero 90mila in meno. Siamo noi a non sapere leggere i numeri o sono loro a dire cose diverse a seconda di cosa stanno parlando?
Anziché su questo, la polemica scoppia sulla già ridotta quantificazione. Il che non ha senso. Dice il ministro Orlando, incaricato del lavoro, che i flussi sono necessari per dare <<un quado di certezza alle aziende>>. Per la verità servono a far supporre che le leggi abbiano un senso e che in Italia è possibile entrare anche regolarmente e non solo irregolarmente. Sostiene Molteni, leghista e sottosegretario agli interni (quindi probabilmente e auspicabilmente a conoscenza del Def), che <<prima di aprire le porte agli stranieri dobbiamo dar lavoro ai tre milioni di italiani che percepiscono il reddito di cittadinanza e che ancora attendono l’avvio delle politiche attive per il reinserimento nel mondo del lavoro>>. Ora, a parte che molti percettori sono considerati non in grado di lavorare, gli altri ancora attendono perché il governo che varò il reddito, ovvero il loro, non si preoccupò di predisporle. Inoltre mi era parso di capire che la Lega fosse pentita di quella trovata assistenzialista, che nacque grazie a loro, e che si fosse accorta sia un disincentivo all’andare a lavorare.
In ogni caso mancano lavoratori e non è affatto vero che quei posti liberi ed essenziali alla produzione suscitino alcun interesse presso i disoccupati indigeni. Nell’agricoltura i lavoratori stranieri regolari sono oggi il 32% del totale, percentuale che cresce, e non di poco, se si considerano anche quelli in nero. E, del resto, fanno ovviamente osservare le organizzazioni del settore, se non ci sono flussi regolari o si perde produzione o si usano irregolari. Dal che discende che, a volerne parlare seriamente e non per far demagogia spicciola, si dovrebbe quantificare il flusso sia sulla base di quel che serve ai conti (170mila, ripetiamolo), sia partendo dalle richieste della produzione. E chi offre lavoro già protesta perché 80mila, fra fissi e stagionali, potrebbero non bastare. Poi non si dica che il consumo di quanto produciamo deve venire prima di quel che importiamo, se ci si rifiuta di far quel che serve per raccoglierlo. Restando alla sola agricoltura, che è una parte e non il tutto.
Secondo i dati Istat oggi siamo, residenti in Italia, in 59.6 milioni. Nel 2050, con questo andamento demografico, saremo 47.6 milioni. Ci si possono pure tappare le orecchie e gli occhi, ma quei numeri comportano delle conseguenze: più immigrati o meno pensioni. Considerato che l’età media cresce, si scelga pure. È da sciocchi accapigliarsi oggi nascondendo le conseguenze di domani, finendo con il subire quel che non si ha coraggio e lucidità di governare.
La Ragione