Francesco Forte è una delle persone più intelligenti che abbia avuto la fortuna di conoscere. Sì, è così. Per raccontare il suo libro intitolato A onor del vero. Un’autobiografia politica e civile, per i tipi della Rubbettino, si deve partire da qua. Dalla pura intelligenza di chi l’ha scritto.
E il lettore mi perdonerà se indulgo in qualche incrocio personale.
Le autobiografie in genere sono delle palle micidiali. Seconde solo alle recensioni delle stesse. Si scrivono, immagino, per autocelebrarsi o per togliersi qualche frustrazione di fine carriera. Ecco, nulla a che vedere con Forte.
Nato nel 1929 è ancora molto arzillo. Non c’è praticamente cosa che non abbia fatto. Rimorchiato da una coppia di gay in vacanza in Austria, innamorato pazzo della sua dolce moglie recentemente scomparsa. Ha fatto il ministro, il professore universitario, il balilla e il socialista.
Di fondo è un liberale. Ha conosciuto Berlusconi quando a inizio degli anni ’80 aveva bisogno di una consulenza sui fondi comuni, appena lanciati. Il rapporto con Craxi e con la politica. Il rapporto con i partigiani, e le docce fredde del Ghislieri dove ha studiato. La sua America da Harvard a Los Angeles. E poi l’Eni, Mattei, Calvi e i grandi personaggi europei degli anni ’80.
Forte ha fatto tutto, e tutto racconta con la semplicità di chi non vuole celebrare alcunché, ma solo raccontare. Persino l’oro di Dongo è passato per l’autobiografia di Forte, che si trova a parlare con il partigiano che sparò alla ricerca di un ufficio nel palazzone del Cane a sei Zampe all’Eur.
Quella di Forte è una lunga cavalcata nella storia di quasi un secolo. Il suo. Ma anche quello che ci portiamo dietro.
Lo conobbi la prima volta in una circostanza incredibile. Roma. Corso Vittorio Emanuele. Notte fonda. Chi scrive era in motorino appena uscito da un bar di Campo dei Fiori, alticcio, ma lucido. Forte, con i suoi capelli da pazzo, che viaggiava a piedi verso chissà dove.
Solo e anch’egli allegro. Mi fermai. Forte scriveva e come scriveva. Di tasse, con la semplicità di un contadino che deve far tornare i conti, ma con la competenza di uno scienziato. «Professore, alla Sapienza la rimpiangiamo, il dipartimento delle scienze delle Finanze ha ancora la sua impronta».
Fu gentile. Per niente infastidito dallo strano approccio. E, con un sorriso, capì in un secondo e mezzo cosa mi volessi sentir dire: «Sono rimasti in pochi, ormai là». Eh sì, il sesto piano dell’Economia a Roma era stato completamente colonizzato dagli allievi di Caffè, dall’economia keynesiana, nella migliore delle ipotesi, e da quella marxiana (parliamo degli inizi degli anni ’90) in quella peggiore.
Nella sua autobiografia forse è presente una risposta più completa: «Il cibo per la mia mente, per me erano scorribande fra la filosofia, l’economia, la sociologia e la politica. In Marx e nei marxisti trovavo e trovo ancora molti spunti interessanti. Ma non mi ha mai convinto la teoria marxista, priva di evidenza fattuale, secondo cui l’unica fonte del valore è il lavoro, mentre il compenso del capitale sarebbe frutto di un super sfruttamento che porterebbe infine al crollo del capitalismo, cioè dell’economia di mercato. Ciò perché senza lavoro non si creerebbe capitale. Il che non è vero in astratto, perché il tempo produce i frutti delle piante e se si aspetta e se si semina di più, invece di mangiare tutto ciò che si è raccolto, si ottiene di più. Inoltre il capitale si crea con l’intelligenza, l’inventiva, lo studio, che nulla hanno a che fare con la teoria delle ore lavoro o della quantità di grano che occorre mangiare per sopravvivere».
C’è qualcuno che può criticare le teorie marxiane con un paragone così azzeccato tra il capitale e il frutto delle piante?
Con tanta semplicità Forte ha scritto di scienza delle finanze. In un capitolo, l’ultimo dedicato ai suoi rapporti con Berlusconi, Forte ci ricorda alcune delle sue proposte accettate dal Cav: dall’abolizione dell’Ici alla lotta contro l’Irap (tanto voluta da Prodi e spacciata per riduzione fiscale), dall’incremento delle pensioni minime alle proposte per la riduzione del debito pubblico.
Tutte legate da un filo comune: sono cose semplici, intuitive. La ragione prevale sul pregiudizio, la scienza sull’ideologia. È la forza di Forte.
Quando nel 2000 strutturai con il Prof un rapporto più continuativo, la sua velocità di ragionamento mi impressionò. All’epoca Giuliano Ferrara, per il quale lavoravo al Foglio come redattore di economia, mi affidò Forte come editorialista economico.
Io lo chiamavo, lui ascoltava e nel giro di qualche istante tirava fuori un’idea originale. Il giornale si prestava. In poche righe si doveva concludere l’editoriale di pagina tre. Mai banale, qualche volta un po’ approssimativo sui numeri, ma sempre efficacissimo.
I numeri in effetti sono la sua forza. Ma sono nell’economista sempre al servizio del pensiero, e mai il contrario. In un mondo di econometrici che facendo ballare la salsa alle cifre tendono a dimostrare tutto e il contrario di tutto, e che pensano di poter prevedere il nostro futuro, beh quella di Forte non è una sciatteria, ma la giusta punizione che l’algebra si merita.
L’autobiografia di Forte è scritta bene, per capitoli agili, e il modo migliore per farsi contagiare dalla vitalità e dall’intelligenza di un economista, che è molto di più che un semplice scienziato.
Nicola Porro, Il Giornale 18 maggio 2017 [spacer height=”20px”]