L’ultimo a paventare spaventose analogie tra i due fatti è stato, sul Corriere di sabato, lo storico britannico Peter Frankopan: l’attacco di Hamas come l’attentato di Sarajevo, è la tesi. Come nel 1914, anche oggi il mondo attende che nuovi rapporti di forza disegnino un ordine geopolitico nuovo. Come nel 1914, un fatto territorialmente e politicamente circoscritto potrebbe innescare un conflitto globale. Chi scrive ritiene la tesi infondata per due ragioni. La prima ragione è che, a differenza del 1914, le grandi potenze mondiali non sembrano avere alcuna voglia di scontrarsi frontalmente. La seconda ragione è che l’attentato di Sarajevo ha valore emblematico non in quanto casus belli, ma in quanto perfetta rappresentazione della potenza superiore del caso fortuito rispetto alla volontà umana.
Una breve ricostruzione degli eventi di quella giornata destinata a “fare la Storia” può aiutare a comprendere.
La mattina del 28 giugno 1914 un corteo di sette automobili attraversa la città bosniaca di Sarajevo diretto verso il municipio. Dai sedili posteriori della terza vettura l’erede al trono asburgico, l’arciduca Francesco Ferdinando, e la duchessa Sofia di Hohenberg sua moglie salutano la folla assiepata lungo i bordi della strada andando pigramente incontro ad una giornata prevedibilmente noiosa. Lui è in alta uniforme, lei di bianco vestita. Cappelli piumati ornano il capo di entrambi.
Alle 10,15 il corteo sfila davanti ad un palazzo del centro. Dalla finestra di un piano alto, il giovane Mehmed Mehmedbasic punta il fucile ma non spara: il bersaglio gli sfugge. Dalla folla si stacca allora Nedeliko Cabrinovic, infila una mano nella tasca destra, ne estrae una bomba, la lancia contro l’auto dell’arciduca. La manca. Ad esplodere è l’automobile successiva. I passeggeri e alcune persone che assistono all’evento restano gravemente feriti. Cabrinovic si infila tra i denti la capsula di cianuro che tiene nella tasca sinistra, la stringe, la spezza, ma non muore. Si lancia allora nel fiume Miljacka, ma è estate: difficile affogarsi in pochi centimetri d’acqua. Raggiunto da una folla inferocita, viene miracolosamente salvato dal linciaggio. E arrestato.
Le auto proseguono il loro viaggio e in municipio, come da indicazione del cerimoniale, ha luogo il ricevimento in onore di un Francesco Ferdinando visibilmente contrariato per lo spiacevole fuori programma. Al termine, l’arciduca ordina di essere condotto all’ospedale cittadino per far visita ai feriti, ma l’auto dell’erede al trono asburgico e di sua moglie punta tutt’altra meta. L’autista, Franz Urban, non ha capito che il ruolino di marcia comunicatogli all’inizio della giornata ha subìto un cambiamento e fila sereno nella direzione sbagliata. Quando gli vien fatto notare l’errore, inverte la rotta e nei pressi del ponte Latino sfila davanti agli occhi increduli di Gavrillo Princip. <Ma va’?>, deve aver pensato il ragazzo…
Diciannove anni, figlio di un postino, da sempre afflitto da una tragica tubercolosi, Princip rifiorì a nuova vita grazie all’ideale panslavo di uno Stato serbo sovrano comprensivo anche della Bosnia-Erzegovina. Nella società segreta Mano Nera si sentì per la prima volta parte di una comunità e di un progetto, condizione che lo spinse assieme ai suoi cinque compagni ad accettare volentieri i rischi di un’operazione potenzialmente suicida. Quell’operazione di cui pochi attimi prima, confuso tra la folla, aveva constatato impotente l’insuccesso.
C’è chi dice che quando la sagoma dell’arciduca gli si materializzò davanti, Princip, seduto al tavolino di un bar, stesse annegando nell’alcool il senso di un fallimento che da esistenziale s’era fatto storico. C’è chi dice che in quel momento stesse invece uscendo da un negozio di generi alimentari: in alcuni, la tensione stringe lo stomaco, in altri lo dilata.
Come che sia, questa volta il giovane Pincip seppe cogliere al volo l’occasione, estrasse la sua Browning 7,65, si avvicinò al fianco destro dell’auto scoperta ed esplose due colpi. Il primo, trapassata la fiancata del veicolo, colpì Sofia all’addome; il secondo attraversò il collo di Francesco Ferdinando. Morirono entrambi.
Cominciò così, con l’attentato di Sarajevo, quell’inesorabile catena di eventi che portò allo scoppio della Prima guerra mondiale, lasciò sul campo almeno otto milioni e mezzo di persone, ridisegnò la carta geografia europea, diede forma al diritto internazionale contemporaneo, umiliò col trattato di Versailles la Germania creando così le premesse per l’avvento di Hitler e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Con le conseguenze che sappiamo.
Tutto ciò fu dunque il frutto di una straordinaria sequenza di casualità.
Ad esempio. Cosa sarebbe accaduto se Mehmedbasic prima o Cabrinovic poi avessero ferito l’arciduca? E se il batterio della tubercolosi non avesse contagiato il piccolo Princip? E se il giovane nazionalista non avesse deciso di sedersi proprio a quel caffè o di comprare qualcosa da mangiare in un negozio? E se Urban non avesse sbagliato strada? E se Princip non avesse avuto il tempo di sparare il secondo colpo? E se Francesco Ferdinando si fosse attardato in municipio per altri cinque minuti?
Se, se, se… perché, come tessere d’un mosaico, sono i piccoli e imprevedibili fatti della vita ben più delle scelte degli uomini “grandi” a dare forma, sostanza e direzione alla Storia. Una direzione il più delle volte casuale.