In fila indiana, seguendo la segnaletica a senso unico senza mai toccarsi e senza perdere il sorriso dietro la mascherina, gli studenti sono finalmente tornati nelle loro scuole. E i genitori, smaltita l’emozione, hanno tirato un sospiro di sollievo: si ricomincia. Ci sono ancora molte «piccole criticità», come i ministri chiamano i problemi non risolti in questi sei mesi di chiusura in cui si è parlato di tutto —termometri e banchi, orari scaglionati e mezzi di trasporto, distanziamento e mascherine — salvo che della scuola vera e propria. Ma la macchina, almeno, si è messa in moto.
Ora che la prova generale è passata, sapendo che bisogna stare all’erta perché il rischio zero non esiste, è il momento di mettere la testa sui ritardi che il nostro sistema si trascina da anni. Sarebbe un peccato capitale sprecare l’occasione dei 2,9 miliardi per la ripartenza della scuola di cui si fa vanto la ministra Azzolina. E più ancora finanziamenti che potrebbero arrivare dal Recovery Fund. Va bene investire questa marea di soldi in opere strutturali (metà delle nostre scuole non è a norma), ma c’è molto altro da fare per migliorare la macchina scolastica.
Lo ha ricordato ieri pomeriggio anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Vo’ Euganeo: «Ritorno a scuola non significa ritorno al passato», ma deve essere l’inizio di «un vero rilancio della scuola italiana». Da dove si parte per fare «questo salto di qualità», lo ha indicato chiaramente il capo dello Stato: da studenti e insegnanti.
Il sistema di formazione e reclutamento dei docenti fa acqua da tutte le parti, altro che «attirare i migliori laureati». La Costituzione italiana prevede che nei posti pubblici si acceda solo per concorso: in realtà negli ultimi trent’anni, i concorsi sono stati l’eccezione, mentre la regola è stata quella delle periodiche sanatorie di precari di cui lo Stato italiano ha sistematicamente abusato (così ha stabilito ormai quasi 6 anni fa una sentenza della Corte di Giustizia europea). Se in questi giorni mancano all’appello 60 mila nuovi prof di cui il Mef aveva autorizzato l’assunzione è perché non ci sono più candidati nelle graduatorie.
Occorre fare al più presto i concorsi, possibilmente non a crocette come avrebbe dovuto essere quello straordinario da 32 mila posti previsto da Azzolina quest’estate, e soprattutto a prova di ricorsi: se si farà quest’autunno, già incombe l’incubo dei candidati esclusi dalla quarantena. Ma soprattutto occorre che diventino regolari, ogni due o tre anni al massimo. Che servano a far salire in cattedra docenti giovani, preparati e motivati. E che evitino la girandola di supplenti per il sostegno: sempre più spesso ad occuparsi degli studenti più fragili arrivano docenti non specializzati.
I nostri insegnanti delle medie e delle superiori sono fortissimi nelle competenze disciplinari coltivate durante i 5 anni di università ma deboli in quelle psicopedagogiche e didattiche relegate a una manciata di crediti acquisiti al prezzo di saldo di 500 euro per lo più tramite piattaforme online. La laurea per diventare maestre esiste ormai da vent’anni: sarebbe forse il caso di creare una laurea (o almeno un corso di specializzazione) per diventare prof. Quanto alla motivazione, visto che uno stipendio da 1.300 euro netti da solo non può bastare, aiuterebbe una maggiore riconoscibilità sociale, magari anche grazie a un sistema che —uscendo dalla logica del «ti do poco ma ti chiedo anche poco» — consentisse delle progressioni di carriera ai docenti.
Come certificato dai test Invalsi e dalle indagini internazionali come l’Ocse-Pisa, uno studente su tre esce dalla terza media senza saper leggere, scrivere né fare di conto: un ritardo che la scuola superiore non riesce a recuperare, come testimoniano le periodiche lamentazioni dei docenti universitari su tesi di laurea con errori di grammatica e ortografia da quinta elementare. La scuola media è stata sì una enorme conquista democratica ma ormai accusa i segni degli anni e di fronte alla sfida di non lasciare nessuno indietro ha finito per contentarsi di fare da nastro trasportatore: tutti promossi, anche senza la preparazione necessaria. Alla fine del nastro, i ragazzi, fino a quel momento portati avanti tutti insieme, vengono nei fatti smistati in tre percorsi: quelli più forti — spesso grazie alla famiglia — li si manda al liceo, quelli intermedi all’istituto tecnico, gli ultimi al professionale che spesso si trasforma in una scuola-ghetto dove i ragazzi si parcheggiano in attesa di esaurire l’obbligo scolastico.
Non sorprende che negli ultimi tre anni, nel silenzio quasi generale, l’abbandono scolastico sia tornato a crescere attestandosi attorno al 14,5%. Urge mettere mano al sistema, tanto più che l’età dell’obbligo è stata innalzata da ma 16 anni senza mai adeguare i cicli scolastici.
Non sarebbe anche il caso di rivedere il curriculum degli studenti? I dati sulla preparazione ci sono, le esperienze degli altri Paesi anche. Ma di che cosa e come si debba studiare per esempio negli istituti tecnici (i licei — anche nei confronti internazionali — se la cavano piuttosto bene, con punte di assoluta eccellenza al classico e allo scientifico) non si parla mai. Eppure è qui che vengono formati i lavoratori specializzati, da qui passa un terzo degli studenti che generalmente poi non affronta l’Università. La scuola è per loro l’ultima possibilità non solo di acquisire competenze digitali e fare esperienze pratiche utili per trovare un lavoro, ma anche di ottenere quella preparazione generale che oggi è più che mai indispensabile per garantire il diritto costituzionale a una cittadinanza consapevole.
Gianna Fregonara e Orsola Riva
Corriere della Sera, 15/09/2020
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