Henry Morgenthau, segretario al Tesoro dell’Amministra-zione Roosevelt durante la Seconda guerra mondiale è passato alla storia per il suo piano (fortunatamente mai attuato). L’idea era di riportare la Germania, a guerra conclusa, allo stato pre-industriale, di «rurarizzarla» integralmente. Ricordano il piano Morgenthau certi umori che circolano fra i sostenitori del governo e, in particolare, della sua componente pentastellata. Ovviamente, non c’è alcun piano, nulla di chiaramente esplicitato. Ma si avverte in giro una diffusa aspirazione, espressa per lo più a mezza bocca, a farla finalmente finita con la modernità industriale. L’azione del governo tiene conto dell’esistenza di quella aspirazione.
Nessuno ha ancora capito cosa gli attuali governanti intendano fare dell’industria metallurgica (Ilva) nonché di Tav, Tap e di tutto ciò che riguarda le scelte da cui dipende lo sviluppo economico futuro. L’Italia è sempre stata terra fertile per estremismi di ogni tipo. Ma qui sembra esserci qualcosa di nuovo (o di antico, ma che solo ora riaffiora con forza).
Il partito comunista era anticapitalista ma non era anti-industriale. Non avrebbe potuto esserlo dato che puntava a egemonizzare la classe dei salariati dell’industria. Adesso è l’anti-industrialismo, più che l’anticapitalismo, a tenere banco. Che altro significano gli slogan sulla decrescita felice?
La controprova è data dall’atteggiamento verso la scienza e il progresso tecnico-scientifico. Ancora una volta vale il confronto con il Pci. Essendo un partito pro-industria il Pci non era affatto ostile alla scienza e al progresso tecnologico, ossia ai motori propulsori dell’industria, e della società industriale in variante capitalista o collettivista. Ma ora la scienza è sotto attacco da parte di molti (come spiegare altrimenti l’incredibile, e devastante, vicenda dei vaccini?). Sono gli stessi che hanno l’aria di pensare che il progresso tecnico- scientifico sia un’incombente minaccia da cui difendersi anziché un’opportunità da sfruttare. È un riflesso «politicista», un errore madornale, attribuire sempre tutte le responsabilità, per qualunque cosa accada, alle forze politiche.
Come se i politici fossero dotati di superpoteri. I politici non inventano mai niente. Si limitano a cavalcare, esasperandole, tendenze già presenti per conto loro nei vari Paesi.
La domanda diventa: come è possibile che nella settima potenza industriale del mondo (o quel che ne resta) sia così intensa e diffusa l’ostilità per la società industriale? A occhio, almeno un terzo degli italiani (e forse anche di più) sembra contagiato dal virus anti-industriale. La diffusa ostilità per la scienza, per lo più, è stata interpretata come espressione di una più generale rivolta populista contro le caste (quella degli scienziati compresa). Ma conta anche l’anti-industrialismo.
Siamo in presenza di un enigma e non è facile venirne a capo. Forse gioca il fatto che ancora negli anni Cinquanta dello scorso secolo questo fosse un Paese prevalentemente agricolo. Forse, il salto verso la società industriale è stato troppo repentino. Forse, sessanta-settant’anni sono pochi perché si disperda completamente la diffidenza, trasmessa agli attuali adulti da nonni e, qualche volta, anche da genitori, legati al (placido) mondo contadino di un tempo, per il caotico — perché fondato sull’innovazione permanente — mondo urbano-industriale. Forse, conta il sistema educativo, la tradizionale, mai corretta, vocazione anti-scientifica della scuola italiana. Per non parlare della sua perdita di efficienza registrata in molte zone del Paese. Zone nelle quali, a quanto pare, da diversi anni, un diploma non si nega neppure al più ignorante degli scolari. Se l’industria ha, come ha, nel progresso tecnico-scientifico il suo motore e se sono davvero in tanti a non avere la più pallida idea di cosa siano scienza e tecnica, ne discende una diffusa diffidenza, che diventa facilmente ostilità, per ciò che non si comprende.
Forse, alcuni hanno creduto che quelle cose fossero ormai anticaglia in una «società dei servizi» o del terziario. Ma forse, più semplicemente, questo diffuso orientamento anti-industriale si spiega facendo ricorso alla favola della volpe e dell’uva. In un Paese in cui da decenni non c’è crescita economica molti hanno finito per pensare che la crescita non serva a niente, anzi che sia dannosa: meglio la decrescita.
L’atteggiamento anti-industriale indossa per lo più i panni dell’ecologismo. Ma mentre la sensibilità ecologica è un utile correttivo contro le esternalità negative dell’industria (aiuta a frenare l’inquinamento), l’ecologismo, spinto all’estremo, diventa un’utopia reazionaria. Per la quale lo sviluppo economico è il male, e industria, tecnica e scienza compongono una terna maledetta, sono strumenti di violenza e morte inflitte alla natura e agli uomini.
La sindrome anti-industriale ha trovato casa nei 5 Stelle. Poiché si usa per entrambe le formazioni il termine «populista», si perdono di vista le differenze fra i 5 Stelle e la Lega. Quest’ultima è afflitta da una diversa patologia. Non ha impulsi anti-industriali. Crede possibile l’impossibile, ossia che un sistema di piccole e medie imprese con una vocazione per l’export possa prosperare una volta che l’Italia si sia sbarazzata dei vincoli europei, abbia fatto ricorso, in modo selettivo, a strumenti protezionisti, e abbia stretto più saldi legami politico-economici con la Russia e il suo capitalismo di Stato.
Chi pensa che il governo possa cadere spera che le differenti patologie facciano prima o poi esplodere un conflitto insanabile. Nel frattempo constatiamo che non abbiamo avuto nemmeno bisogno di combattere e perdere una guerra. Sono spuntati come funghi quelli che vogliono infliggersi, e infliggere a tutti noi, un «piano Morgenthau» fatto in casa.
Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 5 agosto 2018