Grazie anche alla Fle ho scoperto le virtù del dubbio

Grazie anche alla Fle ho scoperto le virtù del dubbio

Orwell entrò nella mia vita che ero molto giovane, fine dei Sessanta, e ancora non avevo letto “1984”, il suo romanzo sul mondo totalitario a venire. Sul retro di copertina della mia prima tessera del Pci (Lenin sul fronte) al punto 10, conclusivo, era scritto: “Difendere il partito da ogni attacco”. Per educazione o diseducazione totalizzante, non ero dunque predisposto al dubbio, sebbene mio padre notasse, con una sfumatura di ironia, che l’articolo 10 si prestava a un equivoco di tipo militare, lontano dall’idea di una via italiana o democratica al socialismo. Ero un ragazzo, l’assenza di dubbio mi dava conforto, incoraggiamento e spinta. Ora se faccio da vecchio un quiz estivo della Fondazione Einaudi, quasi quarant’anni dopo l’uscita da destra dal partito e la conversione all’anticomunismo militante, in anticipo sul crollo del Muro e la ridenominazione, mi viene come risultato un incredibile: “Liberale classico”. Mi viene da ridere, ovviamente, e ripenso all’epoca in cui la disciplina spazzava via per statuto ogni forma di dubbio.

Per quattro decenni i miei nuovi amici, da Aron a Popper, mi hanno spiegato le virtù infinite del dubbio, cuore e anima di ogni pensiero critico. Alla nuova filosofia della congettura e della confutazione, del fallibilismo, della verifica in termini di fatto, dell’esperienza, del metodo rigidamente improntato alla flessibilità etica e epistemologica del dubitare su tutto e di tutto, ma non di tutti, ché al mondo ci sono anche amicizia e amore, mi sono conformato da vero conformista, da neofita di un liberalismo debole e acquisito. Incorporata l’idea che il dubbio sia il sale della terra, per via di una lettera di Orazio a Massimo Lollio, in cui lo invitava a essere saggio a costo di sprofondare nella medietà o mediocrità del dubbio, con la famosa formula Sàpere àude, poi trasformata da Kant nel simbolo illuminista dell’autonomia critica, osare servirsi della propria intelligenza, non dipendere da nessun dogma e limitarsi a conoscere ciò che si può conoscere con certezza, sempre dopo aver dubitato di ogni cosa, ho accettato il primato umano e divino del dubbio nel pensiero.

Nel frattempo deve essere successo qualcosa perché una persona che è degna di stima come Ezio Mauro su Repubblica ha degradato il dubbio, anzi il Grande Dubbio, a una forma di fanatismo ai limiti del negazionismo climatico, tale da far correre al pianeta seri rischi di sopravvivenza. In più, si desume da tutto il ragionamento a sorpresa, il dubbio è meloniano, larussiano, abascaliano, lepenista, salviniano, magari trumpiano, è costitutivamente di destra, conservatore se non reazionario, e serve a minare la certezza della scienza, il ruolo delle classi dirigenti, ha una natura populista intrinseca, si sposa bene con gli affari propri, gli interessi meschini e particolari; il Grande Dubbio “spoglia il potere di quella potestà metafisica che gli riconosceva la capacità di dare un nome alle cose, dunque di interpretarle, rappresentarle e risolverle davanti al popolo; un autentico retaggio di antica maestà cancellato dalla ribellione nei confronti delle élite, che è la vera anima trasversale dei populismi di varia natura” (Ezio Mauro). E così, dopo un’intera vita spesa a emendarmi dalla certezza maestosa e metafisica del platonico e giovanpaolino “splendore della verità” o “veritatis splendor”, eccomi tornato in compagnia di Mauro all’articolo 10: “Difendere il partito da ogni attacco”. In questo caso il partito preso. Il succedaneo del comunismo, l’ambientalismo apocalittico.

Il Foglio

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