Fin qui si usa la paura della guerra. È un’arma di guerra, la paura di una guerra. I russi hanno usato quell’arma per rimettere indietro gli orologi e tornare alle zone d’influenza, ridisegnare e calcare i confini della spartizione fatta a Yalta. Vladimir Putin guida una Russia in seria difficoltà economica, dove le cose vanno male, ma sa usare il collante del nazionalismo e conosce le debolezze occidentali. In Ucraina si è spinto troppo oltre, non può disarmare e tornare indietro senza nulla in mano. Ha creato una trappola per l’Occidente, ma dentro c’è anche lui. Il che non migliora le cose. Qui, a casa nostra, c’è un punto su cui è bene avere le idee chiare: guerra non è un vocabolo per i libri di storia, ma possibilità e politica presente. E si tratta di una guerra in Europa, cui non si può scegliere se partecipare o meno.
I titoli dei nostri giornali avvertono che le Borse sono crollate perché pare ci sia qualche tensione dalle parti di Kiev. Bruciati, avvertono, centinaia di miliardi. Quando crescono non fanno titolo, ma tant’è. Sembrano fatti apposta per avvalorare la nostra presunta debolezza: badano alla saccoccia e trattano sul resto. Se invitati a investire nella difesa gli europei fanno spallucce: basta non mandare contingenti all’estero e chi mai verrà a farci la guerra? C’è già. Quando siamo nati e cresciuti la nostra Europa, che ora abbiamo anche il fegato di criticare o dileggiare, era divisa. Chiusa una parte all’altra. Armati gli uni contro gli altri: loro puntavano i missili nucleari su di noi e noi su di loro. La logica di Putin è: quello era un equilibrio, lo avete violato dopo il crollo dell’Unione Sovietica, a me del comunismo importa nulla, ma dell’impero russo e della nostra storia sì, quindi o torniamo a quell’equilibrio o ammasso le truppe ai confini. Cedere sull’Ucraina significa rivederle in Polonia. Dove già la servitù di Bielorussia aveva ammassato le armi umane dei derelitti lasciati al gelo.
Sa, Putin, che dalle nostre parti sarà assai più facile sentir parlare male dell’inquilino passeggero della Casa Bianca, piuttosto che dell’imperatore permanente del Cremlino. Una volta erano i comunisti a far questo mestiere, ora sono i nazionalisti, coadiuvati da tutti quei filoni culturali cui le grandezze dell’Occidente, ovvero la libertà e la laicità, son sempre state sul gozzo. Ma sa anche, Putin, che questo mondo, apparentemente smidollato, non va tirato fuori dalla cuccia, perché morde. Quindi tende la mano: facciamo un accordo, che c’è tanto gas da consumare. L’accordo consiste, secondo lui, nella cancellazione della libertà di un popolo, metti gli ucraini, di decidere del proprio destino in autonomia. E no, non si può fare.
Possiamo mettere sul tavolo che non entreranno nella Nato, ma non che sarà loro proibito. Putin lo sa, quindi, dopo la Crimea, prova a prendersi un brano di carne, il Donbass, e morderlo a favore di telecamere. Poi i russofoni creperanno di fame, ma chi se ne importa.
Qualche mese fa vedevamo la potenza statunitense proiettata nel Pacifico, dove un altro impero s’è ricordato d’essere tale. Da una parte ci dispiaceva, perché toccava spendere in forze armate europee, dall’altra era un sollievo. È bastato poco per cambiare lo scenario e dopo avere visto muoversi le truppe russe ci si è chiesti quali fossero le intenzioni americane. Allora diciamolo: l’Unione europea non potrà mai essere una grande Svizzera, perché quelli esistono solo in quanto piccoli. Noi siamo grossi. E se non vogliamo provare la tragedia di una guerra da paura sarà bene reagire alla paura della guerra con il coraggio della diplomazia, resa credibile dal dispiegamento della forza. Non è bello, ma è meglio del peggio.
La Ragione