La concorrenza è lo spirito vitale di un’economia libera. Ma non è uno stato di natura, è una costruzione artificiale che va mantenuta in piedi istante per istante dal potere pubblico, per il benessere collettivo. Questa verità elementare è stata negletta in Italia per molto tempo: una legge e un’Autorità anti monopolistiche furono introdotte nel nostro paese soltanto nel 1990, con grave ritardo rispetto agli altri paesi avanzati. Perché da noi l’ordinamento giuridico, la cultura (prevalentemente) umanistica, i costumi sociali, gran parte delle forze politiche, tutto ha congiurato per alimentare una sorda diffidenza verso le istituzioni dell’economia di mercato. L’avversione è stata generale, è andata ben oltre la noncuranza verso la concorrenza. Un’economia di mercato, anche quando inclina pericolosamente verso i monopoli, è fondamentalmente privata, mentre in Italia le preferenze politiche e sociali sono a lungo andate sia verso una forte presenza dello stato nei soggetti produttori (imprese pubbliche), sia verso politiche di sussidio di soggetti privati, cioè politiche industriali verticali, a favore di specifici settori o aziende.
Tutto questo almeno fino agli anni Novanta del secolo scorso, allorché la trasformazione del sistema politico, in Italia, e l’affermarsi di linee di pensiero liberiste in economia, nel mondo, portarono a diffondere due slogan, che divennero rapidamente dei mantra: evviva le privatizzazioni, abbasso le politiche industriali. Dunque, prima facie, evviva la concorrenza, quella vera, quella fra produttori privati, senza intromissioni pubbliche, se non di tutela regolamentare della concorrenza stessa.
Da allora sono passati circa trent’anni, in cui hanno convissuto in Italia occasionali furori ideologici di teorici del libero mercato, fomentati anche dalla Commissione europea e che trovavano echi in alcuni apparati pubblici, con pratiche normative e politiche pervicacemente ostili alla concorrenza. Entrambi gli atteggiamenti hanno prodotto danni. Ad esempio, la difesa acritica, a oltranza, della concorrenza ha riguardato anche settori merceologici ad alta intensità di investimenti, i quali richiedono ingenti risorse e tempi lunghi di realizzazione. In quei settori è stato imposto per regolamento un livello così alto di concorrenza, e conseguentemente un livello così basso di prezzi, da disincentivare le imprese a programmare gli investimenti necessari a far avanzare tecnologicamente tutto il settore, con ciò danneggiando stabilmente i consumatori del futuro per far ottenere un effimero vantaggio ai consumatori del presente. Questo è avvenuto in tutta Europa, e particolarmente in Italia, nel caso delle telecomunicazioni, un caso estesamente citato da Mario Draghi nel discorso a La Hulpe con cui un mese fa ha anticipato i contenuti del rapporto sulla competitività europea da lui coordinato e che sarà presentato in giugno.
Non solo. La fatwa contro la politica industriale ha colpito a lungo anche interventi pubblici di sostegno di attività svolgibili da tutte le imprese, di qualunque settore, come la ricerca di tecnologie innovative e la formazione continua dei propri dipendenti, o di promozione della stessa concorrenza. Politiche cosiddette orizzontali, meritevoli. Il rigetto delle politiche verticali si basava e si basa sull’ovvia constatazione che un burocrate pubblico, un politico, ne sanno sicuramente di meno di un imprenditore che vive nel mercato su quali possano i settori produttivi più promettenti. Infatti sono stati commessi in passato errori madornali, prevalentemente dovuti a un’interpretazione clientelare della politica industriale. Ma non bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca.
Il secondo tipo di atteggiamento, l’ostilità verso la concorrenza, è quello che, ad esempio, tuttora impedisce da noi la liberalizzazione di molti servizi. Il problema è profondo. La platea dei consumatori quasi coincide con quella dell’elettorato, dunque favorirli tutelando quella concorrenza che terrà bassi i prezzi dovrebbe essere nell’interesse di qualunque forza politica. Tuttavia il consumatore medio è vittima di un’illusione cognitiva, non attribuisce meriti a un governo che genericamente sostenga la concorrenza, perché la connessione col proprio interesse è troppo indiretta e non la riconosce; mentre applaude a chi, ad esempio, protegge i posti di lavoro, magari stavolta non il suo, ma non si sa mai in futuro. Stabilire nell’economia il giusto livello di concorrenza, evitando sia eccessi dottrinari sia collusioni demagogiche con questo o quel settore produttivo, è la strada maestra che conduce allo sviluppo.