Cominciamo con una considerazione dietrologica e politicamente scorretta. Chi scrive ebbe la ventura di trovarsi, durante la scorsa legislatura, nel ruolo di relatore di una legge di conversione di un decreto del governo Draghi che, pur essendo dedicato ai ristori post Covid, comprendeva anche i nuovi criteri di reclutamento degli insegnanti della Scuola. Nulla di più “disomogeneo”, eppure nessun rilievo quirinalizio fu allora opposto. Casi del genere sono più che frequenti nel processo legislativo repubblicano. Così frequenti da autorizzare il sospetto che se questa volta il Quirinale ha ritenuto di intervenire, il punto non fosse la disomogeneità della materia in quanto tale, ma il finanziamento dei partiti in quanto tale. Argomento in effetti scabroso e notoriamente assai impopolare. Se ne ricava che il Quirinale ha voluto lisciare il pelo per il verso giusto all’opinione pubblica. Ci sta.
Ma non è questo il punto. Il punto è che il tema affrontato di straforo, e in maniera “disomogenea”, dai partiti è un tema serio. Un tema su cui il Parlamento farebbe bene ad avviare una profonda riflessione. Una riflessione pubblica, alla luce del sole.
Sin dall’Ottocento, il processo di democratizzazione della società occidentali è andato di pari passo con il processo di strutturazione dei partiti politici. I partiti sono stati, a lungo, il luogo dove si selezionavano le élite politiche e dove si organizzavano le proposte di governo. Non è un caso che da quando i partiti sono stati affamati per assecondare un’opinione pubblica educata all’antipolitica dai media la qualità del ceto politico è precipitata e l’improvvisazione, quando non la demagogia, è sembrata diventare il principale criterio di governo. Ricostituire, grazie alla reintroduzione del finanziamento pubblico, la struttura organizzativa dei partiti politici significherebbe contribuire al rafforzamento della qualità del nostro sistema democratico. Un sistema oggi egemonizzato da leader fragili, a capo di partiti inconsistenti, e pertanto inclini a circondarsi di yesman piuttosto che di personalità politiche che hanno dovuto sostenere un cursus honorem antico prima di assurgere alla funzione parlamentare, e a maggior ragione a quella ministeriale.
Ma allora, se le cose stanno così, sarebbe auspicabile che il Parlamento avesse il coraggio di avviare una sessione esplicitamente dedicata alla qualità della nostra democrazia. Una sessione parlamentare in cui, oltre all’opportunità di reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti, si ragionasse su un sistema elettorale oggi incline a scollegare la volontà popolare dalla rappresentanza parlamentare. Non solo. Una sessione parlamentare durante la quale trovasse lo spazio che merita una riflessione sull’opportunità di dare concreta attuazione all’articolo 49 della Costituzione. Quello che prevede che i partiti politici concorrano alla vita politica del Paese attraverso un “metodo democratico“. Quel “metodo democratico“ va assolutamente codificato.
Così come sarebbe opportuno, anche se assolutamente impopolare, avviare una riflessione approfondita sull’opportunità di reintrodurre nell’articolo 68 della Costituzione quelle guarentigie che i padri costituenti avevano previsto per i parlamentari. Non si tratta di, come usa dire oggi, privilegi. Non si tratta di garantire la persona, ma la funzione che la persona ricopre. La funzione parlamentare. La logica malsana e falsa dell’uno vale uno è passata di moda anche tra quel che resta del Movimento 5stelle, possibile ne siano ancora afflitti i leader degli altri partiti?
Se le cose avessero un senso, e se la politica avesse ancora il coraggio della propria dignità, questo è quel che accadrebbe. Ma è piuttosto evidente che non accadrà. Si continuerà così, dunque: con blitz notturni, emendamenti “disomogenei”, escamotage occasionali. E viene quasi il sospetto che agli attuali, cosiddetti, leader politici in fondo vada bene così.