I David di culatello

I David di culatello

Certe serate kurturali servono a ricordare che si potrebbero usare meglio i soldi del contribuente. Se vi serve qualcuno che faccia un discorso retorico e melenso, ricolmo di luoghi comuni e che sia spiritoso come il marito mattacchione di vostra zia beghina, quando il Natale v’obbliga a stare assieme, rivolgetevi sicuri a Roberto Benigni.

Alla cerimonia dei David di Donatello, premi al cinema che si premia da sé solo, è stato fantastico come sempre, perché occorre genio nel toccare cotali vette di banalità e conformismo.

Ma quello era niente, perché poi sono arrivati i discorsi disarticolati di svalvolati presentati come eroi d’a kurtura, lamentosi e piagnucolosi come una porta cigolante, noiosamente arroganti nel chiedere che lo Stato, leggasi il contribuente, non abbia l’ardire di far cessare i finanziamenti a quel che di meglio c’è in giro per il Paese.

Ovvero loro medesimi, prodotti di una scuola il cui urlo lascia l’eco nelle sgrammaticate prose, talché quelli della Terza C sembrano un consesso riunitosi presso l’Accademia della Crusca.

Il buzzurro che si diverte guardando i filmazzi americani, la benestante signora che s’è abbonata per potere seguire le paturnie insoddisfatte di tre sgallettate assatanate di shopping, il tatuato tifoso che si reca allo stadio ignaro della citazione risiana circa i mostri, tutti loro e i loro congiunti e discendenti non osino sottrarsi, nel coltivare i loro zotici interessi, all’obbligo di foraggiare tanta bella gente akkurturata, che di nero vestita e di nulla imbandita, sfila felice e mostra all’inclito e al volgo la prosopopea senza costrutto.

Si ricordino, lavoratori e consumatori, di versare l’obolo fiscale destinato a compensare il vuoto delle sale. Affettare il contribuente per dare guazza al David di culatello, prediletto sul palco e in platea, data la commestibilità.

Ed è osservando i volti dei tanti convenuti, udendo i conati riversati nel microfono, che ci ha preso un moto di commozione: grazie al cielo il cinema è salvo, l’arte italiana di raccontare sé stessi è salva, la capacità di portare sul grande schermo la denuncia vera ed efficace della spesa pubblica improduttiva e dell’illegalità diffusa, tutto questo s’è salvato dagli immarcescibili marcianti in babbucce dorate.

Siamo salvi, perché esistono Ficarra & Picone, come esiste Checco Zalone.[spacer height=”20px”]

Davide Giacalone, Il Giornale 28 marzo 2017

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