La figura del libertino attraversa la storia umana, sin dall’antichità classica, anche se essa viene a consapevolezza di sé solo con il movimento eretico tardo-medievale dei “Libertini spirituali” e poi con il “Libertinismo filosofico” o “erudito” dell’età moderna. Movimenti molto vari e soprattutto personalità spesso distanti tra loro sono state definite nel tempo libertini, per lo più in un senso dispregiativo che la parola ha conservato per secoli (anche se non credo che abbia più oggi).
Proporre un’antologia dei loro scritti, una selezione dei loro nomi, non è facile, pur tenendo bene in conto l’arbitrarietà e non esaustività che ogni scelta, a maggior ragione questa, porta sempre con sé. Cesare Catà, giovane studioso marchigiano, ci ha provato, dandone poi una giustificazione nella lunga introduzione che ha premesso all’interessante e raffinato libretto che ha curato per la Liberilibri: Libertini libertine. Avventure e filosofie del libero amore da Lord Byron a George Best (pagine 221, euro 17).
Il primo passo è stato quello di cercare, come egli dice, un “archetipo dell’immagine del libertino”. Ciò che è proprio del libertino, secondo l’immagine anche corrente, è “l’atteggiamento di chi, dimentico delle norme morali condivise o riottoso rispetto ad esse, indulge colpevolmente in modalità amorose-affettive ponendo in primo piano i propri desideri rispetto al decoro comunitario. Una sorta di sovversione valoriale, cioè, per la quale la libertà d’amare diventa preminente nei confronti della norma stabilita. Il libertino è colui che ama fuori dagli schemi. Uno che ama troppo”. I contemporanei odiavano, ad esempio, infatti Lord Byron, sommo poeta romantico, “per come faceva l’amore. Per le sue innumerevoli relazioni con uomini e donne. Lo odiavano perché amava in modo intollerabile. Lo odiavano perché era un libertino”. Anzi perché del libertinismo “incarnava, propriamente, un archetipo. L ’archetipo, atavico, di colui che ama al di là dei confini morali condivisi perché travalica la comune paura in base a cui tali confini sono stati posti. Di qui l’odio. l’odio per colui che, vivendo la libertà d’amore in un modo che la comunità ha rimosso in quanto invisibile, infrange apertamente un tabù. E, così facendo, scuote il totem della morale”.
Le radici del libertinismo sono quindi, osserva Catà, culturali e filosofiche, tanto che il libertino è per lo più un fine intellettuale che vive la sua filosofia facendone abito di vita. Se però così stanno le cose, e se è giusta l’immagine archetipica delineata, bisogna ammettere che, lungi dall’essere esterno alla modernità, il libertinismo, almeno per come si è venuto delineando fra Cinque e Settecento, ne rappresenta e radicalizza la tendenza profonda e più propria, se così fosse lecito dire. Che è quella della critica dei valori tradizionali della morale e della civiltà umana (e direi occidentale).
Il libertino è, rispetto all’uomo moderno, solo uno che ha più coraggio, o anche, se si crede, più visionario. Vede prima degli altri la fine del processo, dove esso porta: all’abbattimento di ogni totem o tabù in campo sessuale (e non solo) e di ogni identità di genere e persino individuale. Che nella nostra società non ci siano più libertini dipende dal fatto che oggi il libertinismo domina, almeno qui in Occidente, l’immaginario comune o comunque non genera più una condanna morale. La stessa etica, per lo più “buonista”, viene fatta coincidere con l’amore infinito e senza limiti a cui tendevano i libertini.
Quante volte sentiamo ripetere, in modo irriflesso e perciò ancora più significativo, la frase: “basta che c’è l’amore”?
Il quale amore però, rincorso nella sua purezza e assolutezza, diventa sempre più ideale e, di conseguenza, nella realtà, non è mai realizzato nella pratica. L’amore concreto e reale, e istituzionalizzato della civiltà giudaico-cristiano e “borghese”, diventa così il tranquillo “ amore liquido” dell’oggi. Esso, per natura, è disindividualizzante: non ne è forse la “teoria del gender” la più compiuta realizzazione? Non occorre accettare la concezione etica del tradizionalismo cattolico e antimoderno (“reazionario”) di uno dei più profondi pensatori del secolo passato, Augusto Del Noce, per considerare il “libertinismo di massa” come la cifra della nostra società, della sua tendenza dominante. Il mio non è o non vuole essere un giudizio di valore, né di disvalore: è un fatto, indipendentemente dal giudizio di valore che ne diamo, e su di esso va posta l’attenzione per portare il discorso al livello di radicalità, cioè filosofico, che merita.
Certo, anche la nostra società “emancipata” è piena di miti e tabù, come riconosce lo stesso Catà, ma essi non consistono nella persistenza del vecchio, ma soprattutto nel fatto che essa non riconosce come tali i propri pregiudizi. C’è a mio avviso una persistenza di mentalità illuministica, con connesso supporto nell’ideologia del Progresso, che inficiano molte letture “progressive” odierno del libertinismo, compresa questa pur colta e affascinante di Catà. Non si può non riconoscere, certo, l’importanza del libertinismo, ma nel considerarlo semplicemente come una “rivolta” a un mondo codificato, e non una sua intima espressione, si può finire per perdere, come accade quando esso diventa come oggi “di massa”, proprio quella sua “irregolarità” e quella capacità di guardare in modo laterale, e raffinato, alle convenzioni morali, ed ai mille, complessi e non riducibili giochi della seduzione amorosa, che come dimostra questa raccolta, i grandi libertini, ognuno dal suo punto di vista, hanno sempre avuto.
Catà divide la sua antologia in sette parti. Nella prima e nella terza, egli, a mostrare la continuità dell’archetipo nella storia occidentale, accosta passi classici de l’Iliade su Zeus e dell’ Ars amatoria di Ovidio a passi del Don Giovanni di Byron e delle Memorie di Casanova. È proprio la figura di Casanova che permette a Catà di introdurre una prima distinzione: quella fra la seduzione à la Casanova e quella à la Don Giovanni: da una parte, egli dice, solo il primo è un “vero libertino”; dall’altra, però, è costretto a tenere giustamente larga la sua antologia, spingendosi non solo ad includere Don Giovanni ma anche il porno-squatter marchese De Sade. “Il libertino non è un playboy, uno sciupafemmine, un latin-lover, un “rimorchiatore seriale” o, con una definizione più colta, un lothario”.
Don Giovanni ama e conquista tutte le donne che incontra, di qualsiasi età o condizione sociale, ma è narcisisticamente interessato solo al proprio piacere, a incrementare il “catalogo” di quante sono cadute ai propri piedi. Per realizzare il suo scopo, per agguantare la “preda”, egli usa anche l’inganno e la prevaricazione, mentre l’arte della seduzione e della parola che mette in campo Casanova è altra cosa. Il vero libertino, anche quando “pettina” la realtà, lo fa con la raffinatezza, l’arguzia e l’innata cortesia del gentiluomo. Soprattutto, Casanova vuole essere amato dalle donne che ama, ama il loro piacere prima e forse più del proprio. Anche l’amore di Casanova è sconfinato: anch’egli ama tutte le donne, ma non esaurisce il suo amore perché le ama ognuna secondo la propria specificità, in modo diverso. La varietà del suo amore è la varietà e la pluralità dell’universo femminile: egli fa sentire unica ogni donna, perché veramente ogni donna è un cosmo a sé. E la ama in senso totale, fisico e spirituale insieme, in una fusione totale e paritaria di menti e corpi. La qualità qui soppianta la quantità matematica, il cui trionfo pure è, come sappiamo, la cifra fondante della modernità e della sua comprensione (scientifica) del mondo.
Il passo da Casanova a Sade è inevitabile, anche se nel “divino marchese” la serialità superficiale, persino parodistica di un Don Giovanni sfocia in una serialità meccanica e standardizzata che mostra d’un tratto la tragicità e il nichilismo di fondo sottesi anche alle prassi e alle idee dell’emancipazione. Nella quarta parte dell’antologia troviamo così brani tratti da Justine, affiancati ad altri che, nella citata ottica nichilistica, ne sono solo apparentemente l’opposto: quelli dello Specchio in cui la religiosa e teologa francese Marguerite Porete, vissuta a cavallo fra Due e Trecento, registra le sue visioni mistiche. Ella, nella sua tensione verso Dio, non può che attingerlo conquistandolo e facendosene conquistare completamente, in un abbraccio estatico, orgiastico e panico, che mostra anch’esso il nulla di senso e l’infondatezza su cui è poggiato il nostro mondo finito, contraddistinto dalle distinzioni, e segnato dal “peccato originale”. Come in tutta la tradizione del “pensiero negativo” o “apofantico, anche in Marguarete Dio è il Nulla (di ogni determinazione) e l’estasi mistica assomiglia all’orgasmo.
L’originalità dell’antologia è anche, infatti, nel porre in primo piano, accanto ai libertini, le libertine, prestando grande attenzione a quello che è stato da sempre l’aspetto più scabroso per la morale sessuale tradizionale: il piacere femminile. La seconda parte propone così un percorso tutto al femminile che da Saffo giunge alla veneziana “cortigiana onesta” Veronica Franco, alla seicentesca poetessa inglese Aphra Behn, alla novecentesca scrittrice americana Anne Sexton. Il quinto capitolo dell’antologia è dedicato completamente a Oscar Wilde, mentre il sesto mette a oggetto il libertinismo storico sei-settecentesco di lord Rochestor, Julien Offray de la Mettrie e Giulio Cesare Vanini. Chiude il libro una “breve fanta – intervista a George Best”, l’eccentrico calciatore irlandese morto per alcolismo, che, secondo Catà, “in campo, come i libertini sulla pagina, declinava la propria ribellione in creatività; e così giocate mai concepite prima diventavano la forma del suo rifiuto luminoso del mondo, quell’adorazione ardente per la vita che la rende invivibile per alcuni spiriti di genio”.
È sempre Catà che, concludendo la sua densa introduzione, giudica la situazione del libertinismo al giorno d’oggi: “nel Novecento e negli anni Duemila – scrive – non mancano certo eccelsi casanova, sia nell’universo maschile che in quello femminile, noti alle cronache – ma ciò, in sé, non basta per farne dei libertini, se questa essenza non si manifesta entro una dimensione letteraria in cui vita e scrittura non divengono tutt’uno”. Non sarà, più semplicemente, che l’ “irregolarità” e il vero anticonformismo vanno oggi cercati altrove, ad esempio in chi ha la capacità, pagandone spesso pegno come i vecchi libertini, di mettere in discussione le certezze e i pregiudizi del “pensiero unico” e di una libertà che, mai come oggi, si presenta ampia e aperta ma non tollera chi ne mette in discussione i nuovi totem e tabù?
Corrado Ocone, “Il Dubbio” 10 agosto 2018