Fino a che punto le difficoltà che il governo sta affrontando nel delineare un provvedimento di sostegno al Monte dei Paschi di Siena riflettono i vincoli della normativa europea in materia di crisi e quanto invece l’interpretazione arbitrariamente estensiva che la Commissione appare dare al suo ruolo, in presenza di problemi di intersezione tra la nuova normativa e la esistente disciplina degli aiuti di stato? E’ una domanda che ci si è già posti in relazione alla possibilità dei fondi di garanzia dei depositi di intervenire a sostegno di banche in difficoltà, al fine di evitare l’avvio del processo di “risoluzione”, come prevede la direttiva di armonizzazione del funzionamento dei fondi di garanzia (direttiva Sgd) del 2014 e quindi coeva alla direttiva “resolution”. La Commissione di fatto ha vanificato queste previsioni: essa considera infatti gli interventi dei fondi come utilizzo di risorse pubbliche e quindi come aiuti di stato, che non solo implicano il burden sharing, ma l’avvio di una procedura di risoluzione, poiché la direttiva sulle crisi subordina l’erogazione di aiuti di stato a una banca appunto alla sua risoluzione. Questo risultato è preoccupante: quella della Commissione è un’interpretazione discrezionale di un’autorità amministrativa, le cui valutazioni, non hanno il valore di una legge europea, come ha ben notato l’avvocato Nils Wahl della Corte di giustizia europea, in relazione alla previsione del burden sharing contenuta nella Comunicazione sugli aiuti di stato del 2013. Tuttavia questa impostazione dell’Autorità amministrativa sta bloccando possibilità offerte dalle norme di intervenire in maniera non traumatica, quando di traumi non vi sarebbe bisogno.

La questione si ripropone ora con drammaticità riguardo il piano di sostegno al Monte dei Paschi di Siena. E’ bene chiarire che, dopo un lungo processo di ristrutturazione, durante il quale gli azionisti hanno visto vanificato il proprio investimento, Mps non è in dissesto. Anzi, nell’ultimo anno ha molto migliorato la propria posizione patrimoniale che rientra nei parametri prudenziali. Il piano di smaltimento dei crediti, in discussione con la Banca centrale europea, richiede però un aumento di capitale dell’ordine di 2 miliardi di euro: la cui attuazione, in un momento in cui il settore bancario in tutta Europa sta soffrendo, a seguito delle incertezze del quadro macroeconomico e dello choc del dopo Brexit, appare problematica senza una qualche forma di sostegno pubblico.

In principio le norme europee consentirebbero un margine di flessibilità al riguardo: la direttiva Resolution, all’articolo 32.4, lettera d, precisa che se la banca non è in dissesto è consentito, senza attivare una procedura di risoluzione (e il conseguente bail-in), un intervento pubblico straordinario, “al fine di evitare o rimediare a una grave perturbazione dell’economia di uno stato membro e preservare la stabilità finanziaria”. In particolare, questo intervento può prendere la forma di “un’iniezione di fondi propri o l’acquisto di strumenti di capitale a prezzi e condizioni che non conferiscono un vantaggio all’ente”. Le perturbazioni susseguenti alla Brexit, dovunque e particolarmente in Italia, dovrebbero consentire di definire la situazione come di “grave perturbazione” e rischio per la stabilità finanziaria. Il punto naturalmente sono i prezzi e le condizioni, che devono essere quelle di mercato, tanto per un aumento di capitale che per un’emissione di obbligazioni convertibili, nonché l’eventuale durata temporanea dell’intervento, che ne sottolineerebbe la straordinarietà. Tuttavia, anche in questo caso una soluzione incruenta sembra impedita dall’interpretazione della Commissione: la quale ritiene che in ogni caso anche un intervento a condizioni di mercato debba essere sottoposto al suo placet. Con il risultato perverso di scoraggiare qualsiasi intervento privato nella banca, a rischio altrimenti di dover partecipare al burden sharing.

Il punto è che questa pretesa della Commissione di sindacare un intervento ai sensi dell’articolo 32 appare arbitraria: infatti, non vi può essere aiuto se non vi è un vantaggio per chi lo riceve, il che è esplicitamente escluso se le condizioni sono quelle di mercato. Di più, non vi sarebbe neanche competenza della Commissione a compiere una valutazione in questo senso, che eventualmente dovrebbe essere compiuta dall’Autorità di risoluzione. Naturalmente, questi sono argomenti giuridici, che nell’attuale braccio di ferro contano poco: ma è auspicabile che il governo li usi. C’è pur sempre un giudice a Berlino, anzi a Lussemburgo: lo stato potrebbe sempre impugnare per direttissima un’eventuale iniziativa della Commissione davanti alla Corte di giustizia, al fine di chiarire i limiti dell’interpretazione e dei poteri della Commissione. Una strada certo non semplice. L’alternativa però è che un intervento condizionato al burden sharing, come implicato dalla prassi interpretativa della Commissione riguardo gli aiuti, in una banca maggiore e sistemica come l’Mps abbia conseguenze imprevedibili. Un po’ come la Brexit.

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