Le aule di udienza virtuale allestite per l’emergenza virus violano diritti e rinnegano i principi del processo. La pandemia scatenata dal virus Covid-19 ha sconvolto anche l’amministrazione della giustizia, che per non cedere alla paralisi delle attività, ha adottato al suo interno misure di sopravvivenza; esse si avvalgono delle piattaforme informatiche per la celebrazione delle udienze, facendo ricorso a sistemi di videoconferenza (Skype e Teams) che consentono la partecipazione da remoto.
Il D.L. “Cura Italia” prevede che fino al 30 giugno 2020, termine che probabilmente verrà prorogato, la partecipazione a qualsiasi udienza delle perso- ne detenute, internate o in stato di custodia cautelare è assicurata mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto.
Con queste misure si opera pro futuro una prova generale di smaterializzazione del processo che genera però delle forti riserve che non possono essere sottaciute: viene introdotta una disciplina incompatibile con i principi di oralità e immediatezza del processo tale da non consentire un vero e proprio contraddittorio davanti ad un giudice terzo. Viene meno, inoltre, la pubblicità delle udienze, il controllo emotivo della testimonianza e sarebbe fortemente a rischio l’inviolabile segretezza delle conversazioni tra difensore ed assistito nel corso dell’udienza, nonché la forza e l’efficacia del controesame difensivo. Inoltre, come ogni avvocato sa, la liturgia del contraddittorio tra le parti processuali nel dibattimento, sede in cui si forma la prova, non può fare a meno del palcoscenico dell’aula giudiziaria, che mette alla prova l’abilità delle stesse parti.
Anche la segretezza della camera di consiglio viene sconquassata: il singolo giudice che partecipa da casa potrebbe non essere solo e ciò che viene discusso può facilmente essere ascoltato da altre persone presenti nella casa ed anche perché le conversazioni possono essere, volontariamente o meno, registrate dal sistema informatico utilizzato; inoltre è messo anche in discussione il principio della collegialità dato che i giudici partecipano ad essa ciascuno da un luogo diverso. Né può escludersi che durante lo svolgimento della camera di consiglio vi possano essere degli utenti non visibili silenti (cancellieri, tecnici o amministratori di sistema della società proprietaria della piattaforma).
Neanche la tutela dei dati è garantita: oltre all’assenza di garanzie sui protocolli di sicurezza adottati per contrastare le intrusioni di terzi non autorizzati, le piattaforme informatiche trasformano in una grande mole di dati tutte le informazioni relative al processo, compresi gli atti, i documenti, l’audiovisivo delle udienze, i provvedimenti del giudice. E questi dati sono sicuramente depositati in qualche archivio digitale allocato chissà dove e di proprietà di soggetti appartenenti ad una giurisdizione extraeuropea (Stati Uniti) in cui la regolamentazione sulla tutela dei dati personali è assai più lasca rispetto a quella europea. Né vi sono le adeguate garanzie a tutela dei diritti dei soggetti interessati e coinvolti a vario titolo nel processo, nei cui confronti viene effettuato il trattamento. Sorgono dubbi anche su chi debba rivestire la qualifica di titolare del trattamento (il proprietario della piattaforma, il giudice, l’ufficio giudiziario, il Ministero della Giustizia ?), né è dato conoscere per quanto tempo questi dati raccolti vengono custoditi e secondo quali modalità.
Non è poi dato sapere se questi dati possono essere utilizzati per elaborazioni particolari (quali la profilazione o la classificazione dei soggetti coinvolti nei processi giudiziari), od anche trasferiti a terzi per ulteriori specifici trattamenti.
E così queste misure adottate per sopperire alle difficoltà create dalla pandemia finiscono per soffocare alcune garanzie fondamentali su cui poggia il sistema giudiziario. Ma la giustizia, con tutto il suo apparato, secondo questa cieca volontà politica, non può fermarsi, deve andare avanti per dare un segnale alla collettività di pragmatica continuità nel superiore interesse generale, anche a costo di tradire se stessa.
Professore di Diritto Comparato Università di Bergamo
Articolo pubblicato su “Libero” del 20 aprile 2020