Anche se la Chiesa cattolica si era mobilitata con tutte le sue forze e con la massima intensità, in un Paese che era ancora profondamente cattolico e legato alla cultura e al potere ecclesiastici, l’esito di quelle elezioni, alla vigilia, non era per nulla scontato. Il mito dell’Unione Sovietica e di Stalin (il “Padre buono”) era ancora forte, così come la speranza di un riscatto sociale non di rado venato di attese palingenetiche che sortiva un certo effetto in un paese impoverito fino alla fame dalla guerra e ancora costellato dalle macerie e distruzioni.
Soprattutto, il mondo intellettuale aveva nettamente virato a sinistra, un po’ perché lì sembrava essere il futuro, un po’ per opportunismo visto che i comunisti e i loro sodali avevano messo rapidamente in atto la strategia gramsciano-togliattiana di conquista delle “casematte” della cultura: centri di ricerca, università, scuola, case editrici, organi di stampa. Anche se molti elementi cospiravano contro, la DC, alleata ai partiti laici, sbaragliò il Fronte popolare dei comunisti e dei socialisti loro succubi e subalterni e conquistò la maggioranza assoluta dei seggi.
La scelta democratico-liberale, atlantista e occidentale che, pur fra mille difficoltà, l’Italia veniva compiendo in quei mesi, sotto l’abile regia di leader come Alcide de Gasperi e Luigi Einaudi, i “veri Padri” della Patria, veniva confermata da un’ampia fetta di quel popolo in nome del quale l’élite comunista, autoproclamatasi “avanguardia illuminata”, diceva di parlare. Era l’Italia della gente semplice, la cui unica arma era l’intuito e il buon senso, delle vecchie beghine “timorate di Dio” come si disse con un certo disprezzo, che ci aveva definitivamente collocato nel campo giusto: quello della libertà e del mondo libero.
E fu in questa cornice, pur fra mille contraddizioni e imperfezioni, e nonostante la presenza di un forte fronte anticapitalista e antiborghese, che in poco tempo l’Italia avrebbe conquistato un posto fra le principali potenze economiche del pianeta.
Il 18 aprile, che fu diffuso movimento non violento e democratico di popolo, compì l’opera iniziata dalla prima Liberazione compiuta dalla potenza di fuoco della forze alleate e non certo dalla militarmente marginale forza di gruppi partigiani le cui intenzioni erano per lo più di consegnarci nelle mani di un altro totalitarismo. Gruppi che per tutto il dopoguerra, fino al ‘68 e oltre, avrebbero avvalorato i miti antiliberali della “Resistenza tradita” e della “Costituzione incompiuta”. La storia non si giudica e non si riscrive, il realismo non ce lo impone. La si può però rileggere, a distanza di anni, in un’ottica più veritiera.
Piuttosto che continuare a celebrare il Sessantotto non è forse giunto il momento di celebrare il 18 aprile 1948? E non è forse quella la data veramente epocale, quella che allontanò il nostro Paese da una deriva che sarebbe stata solo foriera di guai?
Oggi che né il PCI né la DC esistono più, soprattutto oggi, il 18 aprile dovrebbe diventare la vera “festa nazionale” degli italiani. Almeno di quelli che tengono, non solo a parole, ai valori della libertà.
Se ne ricorderà qualcuno nel giorno del settantesimo anniversario, ormai prossimo?[spacer height=”20px”]
Corrado Ocone, “L’Intraprendente” 17 aprile 2018