«Gli intellettuali italiani hanno sempre scelto un atteggiamento sdegnoso vero la realtà (rifiutandola) optando per la critica distruttiva, la mera critica di ingiustizie, la minaccia di catastrofi, l’atteggiamento piagnone»: lo ha scritto Sabino Cassese (“Intellettuali”, il Mulino, 2021) ed è vero. È vero per gli intellettuali ma è ancor più vero per i giornalisti, per i politici di opposizione, per gli influencer. Il catastrofismo come costante del discorso pubblico italiano, la drammatizzazione come cifra narrativa dell’intero sistema mediatico.
Nessuno è senza peccato. Per i retroscenisti dei giornali, ad esempio, si tratta di un riflesso condizionato. In mancanza di notizie certe sul faccia a faccia tra Tizio e Caio riuniti a porte chiuse per dirimere una controversia politica, il vocabolario utilizzato è sempre, per non sbagliare, quello bellico: “conflitto”, “scontro”, “rissa”, “guerra”… Ogni soluzione politica, cioè ogni soluzione di compromesso, è raccontata come la vittoria schiacciante di uno e la sconfitta cogente dell’altro. Tertium non datur.
Abbiamo passato la scorsa estate chiusi nella nostra Fortezza Bastiani in attesa dell’arrivo di un’ordalia “fascista”. Che non c’è stata. Così come non sono state abolite la proprietà privata e le libertà personali quando “i comunisti” guidati da quel bolscevico di Romano Prodi sono andati al potere. Gli economisti avevano annunciato, pressoché all’unisono, la recessione dell’economia italiana ed europea sin dallo scorso autunno. Sbagliarono. I politologi avevano previsto la fine del Movimento 5stelle sin dalle elezioni di settembre. Sbagliarono. Osservatori e sinistre previdero che il governo Meloni avrebbe fatto saltare i conti pubblici. Sbagliarono anche loro. Così come sbagliò chi (Lucio Caracciolo) sostenne che Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina e chi (Alessandro Orsini) disse che se la sarebbe mangiata all’istante in sol boccone.
Ogni riforma viene raccontata come l’anticamera dell’inferno da chi non ne condivide i fini. È successo con le pensioni da Berlusconi alla Fornero, con il regionalismo spinto ieri e con l’autonomia differenziata oggi, con il Jobs Act di Renzi, con la riforma costituzionale della Boschi, con il nucleare, con gli inceneritori, con le trivelle, con i migranti, con il Mes… La fine del mondo è stata più volte annunciata, il mondo non è mai finito. Abbiamo visto atteggiamenti più o meno commendevoli, abbiamo assistito ad innovazioni più o meno efficaci: tutto è stato discutibile, nulla si è rivelato fatale.
Viene, però, da chiedersi come sarebbe l’Italia se chi ha la responsabilità di formare (e informare) l’opinione pubblica adattasse il proprio canone narrativo al realismo anziché al catastrofismo. C’è da credere che saremmo un Paese migliore. Il confronto sul merito delle questioni sortirebbe soluzioni più coerenti con la complessità dei problemi. L’attenuazione di un pessimismo cosmico da anno Mille consentirebbe di guardare con maggiore fiducia al futuro, incoraggiando di conseguenza i consumi e gli investimenti, e magari scoraggiando l’abuso di ansiolitici e psicofarmaci. Il venir meno della demonizzazione reciproca rafforzerebbe il nostro precario sentimento di unità nazionale, consentendoci di affrontare al meglio delle nostre possibilità le difficili prove insite in un mondo globalizzato. L’attenuazione dei No categorici pronunciati dai banchi dell’opposizione attenuerebbe il senso di delusione, e dunque di sfiducia nella politica, degli elettori quando, conquistati gli scranni del governo, i No si trasformano inevitabilmente in Sì.
E poi, forse, chissà, risulterebbe un po’ meno vero l’ancor oggi verissimo aforisma di Ennio Flaiano secondo il quale «il maggiore difetto degli italiani è quello di parlare sempre dei propri difetti»