Il mal governo? Ha spesso vita lunga e felice

Il mal governo? Ha spesso vita lunga e felice

È un’idea diffusa ma ingenua quella secondo cui gli attuali governanti siano necessariamente condannati a non durare. Per gli errori, l’incapacità, i conflitti interni. Un giorno uno sente il presidente dell’Inps Tito Boeri dire che la previsione di ottomila posti di lavoro in meno a causa del decreto Dignità è fin troppo rosea. Un altro giorno egli sente altri stimati economisti dire che — a dispetto del raziocinante ministro dell’Economia Giovanni Tria — i conti su cui il governo sta puntando per mantenere le sue costose promesse elettorali sono sbagliati. Un altro giorno ancora egli constata che il governo, sulla questione dell’immigrazione, sta isolando l’Italia in Europa perché mentre il fine (limitare l’immigrazione clandestina) è legittimo, i mezzi scelti non lo sono. Il giorno appresso scopre che c’è l’intenzione di contestare le regole dell’eurozona con il mal dissimulato intento di farsi (farci) buttare fuori. Da ultimo, registra l’ira degli industriali veneti nei confronti di quella stessa Lega per cui hanno votato. Ne deduce (checché ne dicano i sondaggi) che la classe politica che ha vinto le elezioni sia ormai alla frutta.

Ma l’evidenza storica dice altro: dice che, più di frequente, sono certi malcapitati Paesi che arrivano prima o poi alla frutta, non le classi politiche che li guidano verso il luminoso traguardo. Spesso, sono i governi che bene amministrano quelli che hanno vita breve e vengono cacciati a furor di popolo.

I governi che male amministrano, invece, hanno sovente vita lunga e felice. Perché? Perché mentre i primi si occupano del benessere collettivo e così facendo danneggiano e fanno inferocire potenti gruppi organizzati, i secondi sanno costruirsi, a scapito del benessere collettivo, un insieme di clientele (alcune più ristrette e potenti, altre più povere di risorse ma più ampie numericamente) le quali, per non rinunciare ai benefici che il governo elargisce loro, lo sosterranno in tutti i modi.

Il buon governo può contare (e nemmeno sempre) su un consenso diffuso ma disorganizzato. Il mal governo si regge, di solito, su un consenso più ristretto ma organizzato. In politica, l’organizzazione ha sempre la meglio sulla disorganizzazione. Per cominciare, la classe politica oggi al governo può contare sull’appoggio di alcune delle più potenti corporazioni del Paese. Il governo Renzi aveva contro sia la magistratura che l’alta dirigenza dello Stato che si sentivano minacciate dalle sue ventilate riforme.

Altra è la situazione del governo attuale. L’alta dirigenza ha capito che non ha nulla da temere e, nel caso della magistratura, le sue tensioni con la Lega sono più che compensate dal fatto che i Cinque Stelle hanno sempre dichiarato la loro volontà di esserne l’obbediente braccio politico. Maggiore efficienza amministrativa? Una giustizia più rispettosa delle garanzie individuali? Nulla di ciò può valere quanto il sostegno di gruppi così potenti.

Oppure prendiamo la questione del protezionismo. Innalzare dazi, protegge certe industrie inefficienti scaricandone i costi sui consumatori. Il protezionismo, in altri termini, colpisce il benessere dei più per favorire il benessere di pochi. Ma i più (i consumatori) sono disorganizzati e quindi hanno scarso peso politico mentre i pochi (gli addetti all’industria inefficiente) sono organizzati. I dazi li «fidelizzano»: una volta ottenuto il dazio essi non smetteranno mai di appoggiare il governo che glielo ha concesso (per timore che altri governanti lo tolgano di mezzo). L’opposizione governativa al trattato di libero scambio Canada-Europa rientra in questa logica. Più in generale, puntare su una economia chiusa in nome di un preteso neo-nazionalismo provoca danni economici (l’economia langue) ma genera vantaggi politici che tendono a protrarsi oltre il breve termine: assicura il consenso senza riserve al governo della parte più inefficiente del mondo della produzione, accresce il controllo politico sull’economia, mette a disposizione della politica risorse da distribuire alle clientele. Si capisce perché né i Cinque Stelle né la Lega apprezzassero Sergio Marchionne: era il simbolo di una economia aperta, efficiente e dinamica. Il loro ideale economico (come quello dei loro amici della Cgil) è l’opposto.

Si aggiunga a tutto ciò l’impotenza dell’opposizione. Come ha osservato Antonio Polito su questo giornale (24 luglio), né il Pd né Forza Italia — gli sconfitti delle ultime elezioni —, così come essi sono oggi, possono impensierire i governanti del momento. Dovrebbe nascere (ma occorrerebbe una nuova leadership), sulle ceneri di quella parte del Pd che non vuole consegnarsi ai Cinque Stelle, nonché di quella parte di Forza Italia che non vuole morire leghista, un nuovo movimento politico. Chiamatelo, se volete, «neo-centrista». Dovrebbe presentare al Paese una proposta credibile: difesa dell’economia aperta, riaffermazione della scelta di campo occidentale, una politica dell’immigrazione che combini un serio contrasto all’immigrazione clandestina con il governo di quella regolare-legale.

Gioca però, a favore dei governanti in carica, e contro la possibilità di una rinascita dell’opposizione, la legge elettorale proporzionale in vigore: essa spinge i vari segmenti dell’opposizione a coltivare ciascuno il proprio orticello, a curare solo i propri «quattro gatti» di elettori. La proporzionale favorisce l’impotenza e la frammentazione del campo dei (cosiddetti) oppositori. Anche nel mondo secolarizzato di oggi, tuttavia, i miracoli (gli eventi improbabili) accadono.

La Lega potrebbe scoprire che, superata una certa soglia, la sua politica dell’immigrazione cessa di generare ulteriore consenso mentre il suo elettorato del Nord comincia a patire troppo le scelte economiche dell’esecutivo. Oppure, alle elezioni europee del prossimo anno, uno dei due partiti di governo potrebbe ottenere, a differenza dell’altro, un pessimo risultato, e ciò destabilizzerebbe l’alleanza. Senza miracoli (ossia, eventi improbabili) sarà come in una favola: essi vivranno felici e contenti. Il Paese no. Ma non si può avere tutto.

Angelo Panebianco, “Corriere della Sera” 27 luglio 2018

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