Non è solo a causa dell’antiamericanismo diffuso, forse nemmeno a causa delle proprie posizioni politiche, che parte degli italiani è contraria all’appoggio agli ucraini
L’antiamericanismo, certo. Quell’antiamericanismo magistralmente descritto da Antonio Polito qualche giorno fa proprio sul Corriere quale nucleo politico forte della contrarietà di una parte vasta di italiani a un appoggio militare del nostro Paese alla resistenza dell’Ucraina contro la Russia. Un antiamericanismo carico di motivi di ogni genere: da quelli più esplicitamente politici a quelli non meno forti, espressione di una disposizione psicologica e culturale che puntualmente ritorna a farsi sentire. Espressione, tra l’altro, di un patetico complesso d’inferiorità che si camuffa nel suo contrario: per cui ci sentiamo tenuti a ribadire, ad ogni occasione, qualche nostra presunta superiore diversità nei confronti degli americani, quasi che però nel nostro intimo non fossimo per nulla sicuri della sua effettiva esistenza. A me pare, per l’appunto, che i motivi più veri della contrarietà a schierarsi con l’Ucraina di tanta parte dell’opinione pubblica italiana molto più che con la politica in senso proprio abbiano a che fare con questo genere di cose. Con stati d’animo radicati nell’inconscio del Paese, con una mutata sensibilità etica. Ciò che infatti più mi colpisce negli italiani che negano il loro appoggio alla causa ucraina è — posso dirlo? — una cosa che non saprei che definire in un modo: indifferenza morale.
Ma come? Non gli dice nulla la figura di Putin? Non significa nulla che si tratti di un signore il quale negli anni ha già aggredito due o tre Paesi, ha condotto un po’ dappertutto feroci guerre di sterminio radendo al suolo intere città, e non perde occasione per sbandierare le sue ambizioni imperialistiche? E davvero per questi nostri concittadini è del tutto indifferente, è una cosuccia da niente, che ad ogni momento egli vomiti disprezzo sul nostro modo di vivere, su tutto quello che siamo, sulla nostra libertà? E davvero per loro conta poco o nulla, ai fini del giudizio da dare sulla guerra in corso, il fatto che uno dei contendenti, cioè il sullodato Putin, sia un organizzatore compulsivo di assassinii politici, un abituale avvelenatore di avversari, uno incline a spedire in galera (come minimo) chiunque osi opporsi alle sue decisioni? Come si spiega, mi chiedo, una simile gelida impassibilità di fronte a realtà così evidenti? Come si spiega dopo tutto quello che è accaduto in Europa nel ’900 questa indifferenza ai crimini di guerra più atroci, premeditati, ripetuti, documentati, commessi dalle truppe russe in Ucraina? Non è a dir poco sorprendente che oggi qui in questo Paese ci siano tanti pronti ad andare in brodo di giuggiole per l’esibizione sanremese di Benigni in lode dei valori della Costituzione ma per i quali rapire e deportare migliaia di bambini ucraini, come hanno fatto i russi nelle zone occupate, non voglia dire sostanzialmente nulla per decidere da quale parte stare?
O forse dobbiamo pensare davvero che nel giudizio di una parte di nostri concittadini sulla guerra in corso abbia un peso maggiore di quello che si deve dare a una battuta l’epiteto di «comico ebreo» che, a proposito di Zelensky, abbiamo più volte ascoltato in questi mesi? È vero, gli ebrei hanno un’antica tradizione di versatilità nell’umorismo e nell’arte della recitazione. Sospetto però che quelle parole volessero dire qualche altra cosa: c’entra forse anche questa nella diffusa antipatia per la causa ucraina?
Un’antipatia, un rifiuto infastidito, un volersi girare dall’altra parte, in cui, di nuovo, sembra di vedere qualcosa, che con la politica c’entra poco. E cioè, in sostanza, l’uscita della guerra dall’orizzonte di milioni di «nuovi» italiani. Ma non già nel senso di un’ovvia preferenza per la pace rispetto alla guerra che condividiamo tutti anche se non ne facciamo una bandiera nella quale avvolgerci. Bensì nel senso di una ormai compiuta estraneità nei confronti dei tratti del carattere e della personalità, anche del modello educativo, del mondo culturale e morale che la guerra mette in gioco: beninteso la guerra in difesa della patria, quella di cui qui si tratta e che gli ucraini stanno combattendo (e quale altra se no? visto che sul fatto che l’aggressione venga dalla Russia nessuno ha il coraggio di discutere) e che anche la nostra Costituzione definisce un dovere sacro di ogni cittadino.
Ma quanti sono, mi chiedo, gli italiani che oggi sentono un tale dovere? Quanti sono le donne e gli uomini disposti quindi a pensare che esistono cause per le quali è giusto mettere da parte la propria esistenza quotidiana con i suoi piccoli e meno piccoli piaceri, le sue comode abitudini, e accettare rinunce, disagi, pericoli, magari anche di rischiare la propria vita? Perché la guerra è questo. La guerra mette in gioco la tenacia, la forza di volontà, il coraggio, anche l’abnegazione di cui siamo capaci, e dunque i valori personali e collettivi a cui siamo stati educati e in cui siamo cresciuti. Evoca per sua natura l’idea che esista qualcosa di più importante e quindi di più grande della nostra vita. In questo senso essa è a suo modo una terribile prova di altruismo.
Che gli ucraini stanno affrontando nella maniera che si sa. E forse il pacifismo nostrano è solo il rimorso (forse anche un rimosso rimpianto?) per la consapevolezza di non essere più capaci di essere come loro.