Il “pacifismo” di Wojtyla ha poco in comune con quello di Papa Francesco

Il “pacifismo” di Wojtyla ha poco in comune con quello di Papa Francesco

In vista del decimo anniversario della canonizzazione, durante l’udienza generale di mercoledi scorso Papa Francesco si è rivolto a San Giovanni Paolo II chiedendogli di “intercedere” presso Dio affinché “ci porti il dono della pace per la quale egli, come Papa, si è tanto impegnato”. Si è trattato, però, di un impegno piuttosto diverso da quello dell’attuale pontefice. Papa Wojtyla non fece dell’equidistanza rispetto ai belligeranti una regola ed ebbe un approccio “politico” più che ideologico rispetto ai conflitti. Sono note la sua scelta di campo e la sua febbrile attività filo occidentale ai tempi della Guerra Fredda. Un’attività a tutti gli effetti politica. “Tutto ciò che è successo nell’Europa orientale non sarebbe stato possibile senza Giovanni Paolo II”, disse Mikhail Gorbačëv a Muro crollato e Unione Sovietica dissolta. Un’attività, e ancor prima una postura, che portò il Pontefice a coltivare un intenso rapporto con Herry Kissinger, al quale chiese anche aiuto per introdurre la geopolitica e le relazioni internazionali nei seminari di formazione dei chierici.

La teologia, evidentemente, non bastava. Giovanni Paolo II predicava la pace, naturalmente, ma talvolta dava l’impressione di non aver del tutto rimosso il concetto di “guerra giusta” elaborato da Sant’Agostino e dopo 1500 anni rigettato dal Concilio Vaticano II. Concilio che però, nella Costituzione apostolica Gaudium et spes, ai paragrafi 79 e 80 condanna la guerra, ma ammette che «fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa». “Non sono un pacifista”, disse Papa Wojtyla durante la Guerra del Golfo, che pure criticò duramente. E non fu esattamente “pacifista” l’atteggiamento che ebbe rispetto alla guerra nell’ex Jugoslavia. Rimase choccato dal massacro dei civili bosniaci a Srebrenjca, non fu indifferente alla sorte del popolo croato. Nel dicembre del 92 intervenne alla Conferenza internazionale sulla nutrizione della FAO e disse: “La coscienza dell’umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia reso obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e di interi gruppi etnici: è un dovere per le nazioni e la comunità internazionale”. Nasce così il diritto all’ingerenza. Concetto formalizzato dal cardinale Segretario di Stato Angelo Sodano il 7 agosto 1992: “Per frenare queste guerre, recare soccorso alle popolazioni e per indagare sulle accuse di atrocità in campi di concentramento, per i quali la Santa Sede ha notizie più che sicure, gli Stati europei e le Nazioni Unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare chi vuole uccidere”.

Il 2 novembre 1993 Sua Santità ribadì il concetto, ufficializzandone il principio, in una celebre intervista a Jas Gawronski de La Stampa. La mise così: «Quello che io voglio dire è che in caso di aggressione, bisogna togliere all’aggressore la possibilità di nuocere. È una differenza forse sottile, ma secondo la dottrina tradizionale della Chiesa la guerra giusta è solamente quella di difesa». La Chiesa di Papa Giovanni Paolo II, dunque, fu capace di una distinzione fondamentale: condannava la guerra dell’aggressore ma legittimava la guerra dell’aggedito. Non esattamente la posizione di Papa Francesco.

Huffington Post

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