Bando alle buone intenzioni. Esse non sono sufficienti per procurare il bene sociale, e non sono nemmeno necessarie. Voglio dire che, in frequenti circostanze, il bene sociale è un effetto non intenzionale della condotta di individui che badano soltanto al proprio interesse egoistico.
È un paradosso che i pianificatori rifiutano, convinti come sono che la storia ubbidisca ai loro comandi, e che i comandi non siano mai sbagliati.
Nulla di più falso: i pianificatori, come tutti gli uomini, non sono infallibili, possono sbagliare i loro comandi e, soprattutto, si sbagliano sull’ubbidienza della storia.
Tommaso d’Aquino ammise che perfino i peccatori, peccando, in certi casi facevano il bene senza cercarlo. Più tardi, all’inizio del Settecento, Bernard de Mandeville, nella “scandalosa” Favola delle api, portò vari esempi di come (per usare la sua formula) i “vizi privati si trasformano in virtù pubbliche”, specialmente nelle società vaste e aperte.
Mandeville è semisconosciuto e misconosciuto quale filosofo. In realtà egli (di famiglia di origine francese, poi emigrata in Olanda e in Inghilterra) non era un filosofo, ma un medico, specialista in malattie nervose e alquanto bizzarro lui medesimo. Pochi presero sul serio la sua filosofia dilettantesca.
Adam Smith, però, attinse parecchio da Mandeville e diede a quella filosofia paradossale una forma più sistematica, che gli permise di spiegare il funzionamento dell’economia di mercato e di porre le basi del liberismo moderno. “Non e dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi attendiamo il nostro pranzo, ma dalla loro considerazione all’interesse proprio”: le parole di Smith risuonano dal 1776 e sono la chiave del capitalismo.
A noi consumatori non interessa che il macellaio, il birraio o il fornaio ci amino; ci interessa che ci servano bene, e oro ci servono bene se la concorrenza di mercato li obbliga a servirci bene per guadagnare un profitto. Il profitto è il voto che noi diamo ai nostri fornitori o i nostri clienti danno a noi. Sia chiaro che il sistema funziona solamente in un mercato di libera e leale concorrenza.
Vi sono tanti tipi di capitalismo, alcuni moralmente indifendibili. E io non li difendo, ma difendo il capitalismo come l’hanno inteso Smith, Mises, Luigi Einaudi, come lo intende Hayek: non un capitalismo perfetto, ché la perfezione non è di questo mondo, ma un capitalismo che le libertà economiche e politiche possono migliorare ogni giorno.
Pur con tutte le sue imperfezioni, l’era del capitalismo è la prima nella storia ad avere eliminato la miseria di massa.
C’è riuscita non perché aveva intenzioni migliori delle epoche precedenti, ma perché ha lasciato perdere le chiacchiere dei filantropi e dei benpensanti per applicare invece il progresso tecno-logico, organizzativo e merceologico. C’è riuscita nonostante l’opposizione dei socialisti e dei comunisti e di tanti altri sedicenti benefattori dell’umanità.
Il mio aneddoto preferito a questo proposito è quello di San Martino, il soldato romano che divide a metà il suo mantello col povero infreddolito incontrato lungo la strada. Non nego la nobiltà di quel gesto cristiano, che dovremmo ripetere in analoghe circostanze.
Tuttavia non è cosi che abbiamo cancellato la povertà di massa.
L’abbiamo cancellata quando l’industria tessile capitalistica, alla ricerca del profitto e premuta dalla concorrenza, ha applicato il progresso tecnologico per gettare sul mercato milioni e milioni di mantelli a basso costo e tutti interi: un costo cosi basso che milioni e milioni di ex poveri sono riusciti a proteggersi dall’inverno. [spacer height=”20px”]
Sergio Ricossa, intervento conferenza organizzata dal CIDAS a Torino il 23 aprile 1991