Tra i problemi seri da risolvere, e che purtroppo sono rimasti in sordina durante il dibattito congressuale del Pd, c’è quello delle riforme della Costituzione. Questa mancanza è poco comprensibile, anche solo guardando alla storia. Il Pci si dette una propria statura politica proprio durante la fase costituente della repubblica e per decenni ha vissuto facendo riferimento a quella Costituzione come alle proprie radici e alla propria matrice di identità.
Questo risultato fu ottenuto con un vero compromesso, quello sì storico, con la Democrazia cristiana. Se, allora, fu possibile trovare un accordo per fondare una democrazia, perché oggi non dovrebbe esserlo in condizioni di gran lunga più facili per rifondarla? Non c’è più alcun fattore K (come Kommunismus) o A (come America) o O (come Occidente) o N (come Nato)che impedisca al Pd di governare l’Italia. E (almeno fuori da San Remo) non c’è più ragione ideologica se non pretestuosa (l’antifascismo) che faccia da ostacolo al Pd per collaborare a una revisione della nostra Costituzione, come lo stesso Pd ha più volte tentato di fare ben conoscendone la necessità.
Il centrodestra ha posto la revisione della Costituzione fra gli obiettivi programmatici da raggiungere; Giorgia Meloni ha dichiarato più volte che questo sarà l’anno di inizio del processo delle riforme; e sempre la presidente del Consiglio ha detto che questo processo si fa assieme all’opposizione. Ha teso una mano responsabilmente e ha aspettato il congresso Pd. Può ora il Pd sottrarsi? Se la maggioranza intende collaborare, può opporle veti? Può definirla impresentabile e pericolosa? Non può. Sta perciò a Elly Schlein e al nuovo gruppo dirigente che si sta formando attorno a lei elaborare una posizione che finora è mancata.
Intanto sono già cominciate le celebrazioni dei 75 anni della costituzione. Occasioni quasi sempre retoriche e vacue, dove vecchi maestri o presunti tali si esercitano davanti allo specchio con le pose dell’autocompiacimento. Ma quando si celebra non si medita, quando si esalta non si comprende, quando si difendono tesi per partito preso non si studiano le carenze. E tuttavia, anche quando si voglia saltare la prima parte e mettere a tacere una lunga tradizione di critica liberale e democratica e anche di destra che l’ha sempre investita, la seconda parte della nostra Costituzione di carenze ne presenta in quantità. Palesi e riconosciute da tutti, dalla dottrina come dalla politica.
In questo clima di celebrazioni vorrei sottoporre l’idea di un giorno solenne di meditazione. Settantacinque anni fa la Costituzione entrò in vigore, ma quasi settantasette anni fa si cercò di modificarla. Non è un paradosso. Correva il 4 settembre 1946 e all’assemblea costituente, di fronte al voto di indirizzo fra il sistema parlamentare e quello presidenziale, un bravo giurista eletto nella fila del partito repubblicano, Tommaso Perassi, si alzò e presentò un ordine del giorno che così diceva: “la seconda sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo ed evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Profetico e puntuale. Perché il sistema parlamentare è poi di fatto degenerato nella partitocrazia e la partitocrazia è infine degenerata nella irrilevanza del parlamento (proprio quello della famosa “centralità”!).
Donde la crisi della democrazia, donde i governi tecnici, donde la disaffezione al voto, donde la crisi dei partiti, donde il sempre più spiccato ruolo politico, contro la stessa costituzione, del presidente della repubblica nella formazione e nella vita dei governi. Aveva ragione Perassi a chiedere riforme (“provvedimenti costituzionali”) per dare efficienza al sistema politico (“stabilità dell’azione di governo”) e per evitare rischi alla democrazia(“degenerazioni del parlamentarismo”). Un anno e cinque mesi prima che la costituzione entrasse in vigore!
Si osservi che tanta parte della politica italiana del Dopoguerra si spiega con il mancato adempimento dell’ordine del giorno Perassi. Sarebbero tante quest’anno le date da celebrare (vedi A. Malaschini, La tela di Penelope , Rassegna parlamentare, 64, 2, 2022): i settanta anni della legge elettorale maggioritaria sostenuta da De Gasperi, i quasi quaranta anni del “Decalogo Spadolini” sui poteri del presidente del consiglio in parlamento, i quaranta anni esatti della commissione Bozzi, i poco più di trenta anni della commissione De Mita poi Iotti, fino ai tentativi di D’Alema (26 anni fa) e Renzi(ieri).
Possiamo riprovarci? Abbiamo bisogno di studiare ancora? No, basterebbe poco tempo a una commissione bicamerale per esaminare una serie di problemi, fare una rassegna delle possibili soluzioni e una collazione dei testi. Si devono fare tante audizioni e consultazioni? Macché! Sulla forma di governo basterebbe la testimonianza di quei presidenti del Consiglio che si sono succeduti alla cadenza di uno ogni quattordici mesi; sull’ordinamento giudiziario basterebbe tirare a sorte qualcuno dei tanti cittadini che hanno avuto la disgrazia di incapparci; sul bicameralismo perfetto, chiedere a qualunque parlamentare e ministro dei rapporti col parlamento; eccetera. E’ quasi tutto fatto e tutto chiaro.
Allora, ci riproviamo? Dobbiamo, se non vogliamo aggravare la crisi. A ben guardare, bastano un po’ di consapevolezza, di determinazione, di fiducia reciproca, di volontà, di clima non avvelenato. Anche lo strumento è ben chiaro. Dunque, qua la mano. C’è da tempo un’Italia nuova a cui dobbiamo dare una veste nuova. Dobbiamo farlo presto, prima che ci scappi di mano. Se ne renderà presto conto anche la Schlein, e anche lei converrà che Penelope sarà anche stata una sposa virtuosa, ma è l’ora che vada in pensione.