Un inciucio salvacasta ha conservato il seggio senatoriale di Augusto Minzolini? No, le cose stanno in modo peggiore. La scena restituisce gli effetti di un’implosione che è prima culturale, poi politica e infine morale. Tre sono gli aspetti rilevanti.
1. Al di là della solidarietà legata allo schieramento, diversi senatori, specie del Partito democratico, quindi avversari di Minzolini, hanno manifestato molti dubbi sulla ragionevolezza della sentenza che lo aveva condannato, anche perché era stato assolto in primo grado e poi condannato a opera di un giudice che era stato un esponente politico (avverso all’imputato), salvo poi tornare a vestire la toga.
Due osservazioni: a. il nostro ordinamento prevede che per condannare si debba superare ogni “ragionevole dubbio”, ma come si fa a superarlo se un altro collegio ha assolto? (una legge rimediò a questa assurdità, ma fu poi improvvidamente abrogata dalla Corte costituzionale, sicché si dovrebbe rifarla, non arrendersi); b. il giudice politico, che poi torna a fare il giudice, è una figura grottesca, un insulto al buon senso, ma non si tratta di diffidare delle sue sentenze, bensì impedire che esista.
2. Se occorre impedire che il giudice faccia il politico, bisogna anche impedire che il politico si erga a giudice. La legge Severino è orrenda, come proviamo ad argomentare da prima che nascesse. Se prevedesse una decadenza automatica sarebbe brutta, perché una cosa è la non eleggibilità, altra il fatto che un ordine possa modificare, sia pure con sentenza, un potere ove risiede la sovranità popolare. Sarebbe brutta, quindi, ma non orrenda.
È orrenda, invece, nel sottoporre la decadenza al voto. E cosa fanno, i signori parlamentari, giudicano la sentenza? Se una cosa è sottoposta al voto è segno che si può acconsentire o dissentire, ma su quale base una sentenza porta alla decadenza e un’altra no? La legge è sbagliatissima, sotto ogni profilo. La sua sola esistenza dimostra un inquietante disorientamento culturale.
3. Il problema non è affatto che il voto del Senato ha salvato un esponente della “casta”, come con linguaggio zoticissimo si va sostenendo, da anni, ma che una vasta platea di parlamentari non sono capaci di spiegare a sé stessi che questo genere di problemi riguarda tutti, nessun cittadino escluso. Porvi rimedio non è un istinto d’insana autoconservazione, ma il solo modo per far credere di avere una funzione da svolgere.
Se non ne sono capaci, allora, diventa quasi obbligatorio chiedersi se costano troppo e se non dovrebbero decadere tutti, a turno, facendosi condannare, uno dopo l’altro, da qualche ex collega ostile che, tornato a fare il giudice, trova il modo di vendicarsi.
La sola cosa su cui i commenti sembrano essere uniti è nel sottolineare il tono fascisteggiante di alcune dichiarazioni, giustificative della violenza, pronunciate da un impettito e supponente ortottero. Ho l’impressione ci sia una dose eccessiva di manierismo, nel mostrarsi indignati per cotali parole.
Sì, certo, la violenza è sempre esecrabile, anche il solo evocarla, quando si può discutere pacificamente, ma quel linguaggio, sguaiato e bullesco, altro non è che il risvolto di una medaglia che, sull’altra faccia, reca le insegne di un mondo politico che sul serio parla del “caso Minzolini”, senza accorgersi, o sperando che non ci si accorga, che a pesare è il caso italiano: malagiustizia con tempi assurdi; processi a carico degli assolti; giudici che alternano la carriera giudiziaria a quella politica.
Davide Giacalone