È sempre un piacere salutare la pubblicazione in lingua italiana di un classico del tutto ignorato prima dalla nostra editoria: un libro, che da quando fu pubblicato per la prima volta nel 1953, a Washington dall’editore Regnery, ha avuto diverse edizioni ed è divenuto un’opera di riferimento indispensabile per gli studiosi. Come raramente accade, complice un linguaggio che sa unire al rigore scientifico un dettato semplice, a The Conservative Mind. From Burke to Santayana di Russell Kirk ha arriso da subito, e poi negli anni a seguire, non solo un successo di critica ma anche di vendite. Esso, inoltre, ha contribuito, come pochi altri volumi, alla rinascita di un filone culturale che sembrava in crisi, influenzando autorevoli politici (compresi capi di Stato) e opinion makers per più decenni. Il piacere per l’edizione italiana è ancora maggiore se si considera poi che l’opera esce per i tipi di una casa editrice piccola ma lanciatissima, diretta da un giovane studioso e organizzatore di cultura, che è anche il curatore e prefatore del volume, Francesco Giubilei: Il pensiero conservatore. Da Burke a Eliot (Giubilei Regnani Editore, Roma-Cesena, pagine 612, euro 25).
Kirk, che era un americano del Michigan (era nato a Playmouth il 19 ottobre 1918), scrisse il suo capolavoro, a cui successivamente si sarebbero affiancati una impressionante quantità di saggi e articoli, in Scozia nel periodo nel dottorato, fra l’autunno 1948 e la primavera 1952, “principalmente nella stregata Saint Andrews e nelle vecchie case di campagna di Fife”. Tornato in patria, iniziò una carriera universitaria che durò molto poco: si dimise già nel 1959 dalla Università del suo Stato, denunciando lo scadimento della cultura accademica, il suo livellamento verso il basso e l’abbandono della tradizione classica. Ritiratosi nella sua casa di campagna a Mecosta, sempre in Michigan (si chiama Pietr Hill), ne fece un centro culturale da cui promosse con iniziative varie la cultura conservatrice.
Il conservatorismo di Kirk
Pur essendo stata scritto intorno ai trenta anni, The Conservative Mind non può dirsi certo l’opera di un giovane, avendo alle spalle un’impressionante mole di letture e soprattutto la precoce capacità di organizzarle. In essa, Kirk individuò un filo rosso che legava una serie di autori inglesi e americani e che delineava i confini di una dottrina, il conservatorismo appunto, che per lui non è da considerarsi un vero e proprio sistema di idee, tanto meno di dogmi, bensì un radicato sentimento e uno stato d’animo, un comune modo di porsi di fronte alla realtà in genere e a quella politica in particolare. Così inteso, il conservatorismo si oppone alla sinistra radicale e a quella progressista, in primo luogo, ma anche e più in generale alle idee portanti del filone razionalistico che ha dominato tutta la modernità, in particolare gli ultimi due secoli: l’elogio dell’innovazione, la novità a tutti i costi, il progresso, il cambiamento continuo e anche provocato (cioè la rivoluzione). Pur senza farne un’ideologia, perché per Kirk contraddizione nol consente, egli riuscì a dare al pensiero conservatore una sistemazione ideale, ovviamente non esaustiva e criticabile, ma coerente, tracciando un percorso evolutivo che, partendo dalle Riflessioni sulla rivoluzione francese (1790) di Edmund Burke giungeva fino ai suoi giorni.
La teoria emergeva dal percorso storico delle idee, e reciprocamente e dialetticamente lo illuminava. Ne emergeva una sorta di pantheon (i capitoli hanno al centro soprattutto i singoli pensatori) a cui molti conservatori inconsapevoli avrebbero potuto da quel momento in poi fare riferimento. Nessuno avrebbe potuto più ripetere, con John Stuart Mill, che quello conservatore era un “pensiero stupido”.
Per comprendere l’economia generale del libro, il primo capitolo, dedicato a Burke, è fondamentale. In verità, lo storico inglese di origine irlandese rappresenta agli occhi di Kirk, che nutre per lui una sorta di venerazione, non solo l’inizio cronologico ma anche logico dell’intera vicenda raccontata. È il nucleo forte delle sue idee che funge quasi da canovaccio per definire cosa è propriamente il conservatorisno. E per distinguerlo dalle altre dottrine politiche. Il conservatorismo che Kirk, sulle tracce di Burke, aveva in mente era diverso, ad esempio, sia dal conservatorismo prettamente economico che ha avuto corso a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso sia dal conservatorismo populista che ha corso oggi. Rispetto a quest’ultimo, ad esempio, era più intellettuale e meno aggressivo e semplificatorio.
Lo potremmo definire conservatorismo tradizionale, stando attenti però a distinguerlo dal tradizionalismo e, ancor più, dal reazionarismo. Esso, infatti, non intende conservare in modo statico e dogmatico la tradizione, né vuole ritornare a un passato più o meno mitizzato: vuole semplicemente che i cambiamenti avvengano gradualmente e inserendosi in un contesto di tradizioni e costumi sociali che vanno considerati non come “superstizioni”, alla maniera dell’illuminismo francese, ma come il sedimentarsi di una saggezza popolare e convenzionale accumulatasi nei secoli. Questa saggezza è a suo modo “razionale”, già solo per il fatto di essere durata così tanto (nel 1964 Kirk, subito dopo aver sposato una giovane cattolica di diciannove anni, si sarebbe convertito al cattolicesimo proprio per rispetto alla sua indubbia capacità di saper reinventarsi nei tempi facendo evolvere quasi naturalmente il suo nucleo originario senza mai abbandonarlo).
Kirk non finisce mai di sottolineare come, in politica, il principio della prudenza (l’antica phrònesis dei greci) deve sempre fare da guida, aiutando a valutare in anticipo le conseguenze delle nostre azioni secondo l’etica della responsabilità. Nella prefazione del 1986 al nostro volume, egli scrisse che “sia l’impulso a migliorare sia l’impulso a conservare sono necessari per un sano funzionamento della società. Unire le nostre energie per ottenere il progresso o unirle per ottenere la permanenza, questo deve dipendere dalle circostanze dei tempi”. Si tratta di un’affermazione che, in verità, anche un liberale, storicista come Croce o evoluzionista come Hayek (che pure proclamò di non essere un conservatore), potrebbe far propria. Tanto più che fra le idee portanti del conservatorismo Kirk cita sempre anche la proprietà privata e la tutela e promozione della varietà e diversità (e anche diseguaglianza relativa) fra gli uomini. Certo, egli critica continuamente il liberalismo, che era la dottrina dominante nel mondo anglosassone nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, ma in quel caso si trattava di quel New Liberalism o Social Liberalism che proprio Hayek avrebbe contribuito a smantellare.
Kirk e i liberal
Anche se aveva avuto durante la guerra un’importante corrispondenza, che molto lo formò, con la scrittrice anarchica Isabel Paterson, Kirk era lontano anche dai libertari, che giudicò fanatici e settari, e comunque troppo individualisti per la sua mentalità. Netta invece, ovviamente, la sua distanza dall’ideologia liberal, che egli avrebbe giudicato una delle cifre più significative della disgregazione morale della società contemporanea: in nome della “ragione”, i liberal vogliono cambiare radicalmente e rapidamente la società e l’uomo, contestando ad esempio le gerarchie sociali (Kirk, nella critica dell’egualitarismo e del “principio di autorità” dà forse il meglio di sé). D’altronde, egli dedica un capitolo ai “conservatori liberali” dell’Ottocento, includendovi anche Tocqueville, che è l’unico autore né inglese né americano della sua storia. L’ideale di Kirk è, in fondo tocquevilliano: una società di piccole comunità volontarie, legate da vincoli morali e tradizioni (egli parla di “principio della prescrizione”), da una religione comune, da un regime di libertà individuale regolato però dalla legge. Suoi eroi non sono, per dire, né l’imprenditore del conservatore liberal-liberista, né il forgotten man di un Trump.
La sua visione era senza dubbio nazionalista, o quanto meno fortemente contraria ad ogni prospettiva universalistica e cosmopolitica. All’individuo astratto opponeva l’individuo concreto sempre immerso in una situazione storico-sociale determinata. È a partire da essa che, nel rispetto della legge e degli altri, egli deve trovare i propri spazi di libertà. Il suo nazionalismo era però fortemente antimilitarista, ed epica fu la sua campagna pubblicistica contro la Guerra del Golfo di Bush senior. Egli si opponeva all’idea stessa, che allora cominciava a farsi strada, di esportare e imporre con la forza la cultura occidentale in altri posti del mondo. Kirk intuì in qualche modo che l’idea “umanitarista”, che era stata sempre propria dei democratici (almeno dai tempi di 8si pensi a Woodrow Wilson), avrebbe corrotto l’anima dei repubblicani. Così avvenne, ma non ebbe modo di vedere all’azione Bush junior, essendo morto a Mecosta il 29 aprile 1994.
Ritornando al libro di Kirk ora ripubblicato, il suo merito fu quello di aver rimesso al centro della discussione autori come John Calhoun, Benjamin Disraeli, George Santayana, Thomas.S. Eliot, e altri, che ormai non facevano più parte del canone accettato. E di aver capito che solo una tradizione e una profondità scientifica può dare spessore a una cultura politica, che poi troverà i suoi canali per raggiungere, semplificata, le grandi masse. Egli dette voce a un’America profonda con piccole e sane virtù borghesi, mostrando come la tradizione politica che ne ha riflettuto le idee, da John Adams in poi, non è stata affatto irrilevante nella costruzione del nuovo Stato. Così come non lo era stata nella storia inglese.
I meriti del libro
Questa tradizione fu rinvigorita negli anni Cinquanta dall’uscita del libro di Kirk, ma anche dall’opera di intellettuali come Alfred J. Knox, Eric Voegelin, Leo Strauss, lo stesso Hayek. Kirk intuì poi che lo scadimento della cultura, e dell’idea stessa di Occidente, nasceva dalle ideologie che si affermavano, e sempre più si sarebbero affermate, nei campus universitari. Capì cioè che l’azione di fondazioni, centri di ricerca, think thank, riviste, avrebbe potuto essere più proficua per la diffusione delle idee conservatrici. E così fu. I repubblicani furono molto influenzati da questa azione intellettuale a tutto campo, almeno fino a Reagan. Poi fu un’altra storia, a destra come a sinistra. Nel mondo anglosassone, e non solo.
Corrado Ocone, Il Dubbio 22 giugno 2018