Magistratura e politica in Italia, pubblichiamo le considerazioni di Francesco Di Donato—prof. ord. a Napoli e autore, tra gli altri, del saggio La rinascita dello Stato (Ed. Il Mulino)
Nessuno sembra rendersi conto in Italia che il più grande problema che attanaglia quest’ormai Bruttopaese è l’impossibilità di mettere un freno al dilagante potere della magistratura.
Il fenomeno è invero planetario. Un libro di qualche anno fa di due studiosi inglesi (Tate e Vallinder) metteva l’accento sull’Espansione globale del potere giudiziario. Ma in altri paesi la cosa fa scandalo e il debordare della giurisdizione trova un argine in contropoteri politici forti, sorretti da ampio consenso popolare.
In Italia, invece, il fenomeno assume contorni mostruosi. La magistratura è divenuta un drago a sette teste contro il quale non basta nemmeno un san Giorgio. Il sistema microfeudale della penisola non consente l’emergere di una sovranità politica. Tutto è continua mediazione al ribasso e quindi domina la mentalità illegale.
Questa situazione spalanca le porte al dominio assoluto della magistratura. La quale si erge a tutrice della legalità violata dalla politica. Ma se il politico agisce ai bordi della legalità è perché la società esprime questa mentalità.
Trionfa il cinismo egoista. Non vi è paese più idealista (a parole) e più spregiudicato (nelle azioni) dell’Italia. La moltiplicazione immensa di leggi oscure (spesso scritte da magistrati) aiuta immensamente questa “supplenza” dei tecnici del diritto e favorisce la loro sottigliezza e la loro capacità ineguagliabile d’inserirsi negli interstizi del vuoto politico.
Conosciamo bene le obiezioni dei maîtres-à-penser del parterre giuridico quelli con il ditino alzato e il naso all’in su: soprattutto il paradosso per cui l’Italia sarebbe l’unico paese nel quale anziché dare più mezzi ai giudici per combattere il crimine si ostacola la magistratura.
Sono argomenti attendibili in un altro contesto.
Qui suonano solo trombonate retoriche messe al servizio di un sistema mostruoso che è tanto chiuso a vere riforme (la sacrosanta separazione delle carriere tra pm e giudici) quanto generosissimo con i suoi araldi che vengono premiati quali che siano gli effetti delle loro (assennate o dissennate) azioni.
Da questo punto di vista continuano a essere gravissime le responsabilità intellettuali di studiosi (veri o presunti) che si arrampicano su specchi sempre più viscidi pur d’inventare fragili muri concettuali a difesa di uno status quo che non solo studi sempre più documentati, ma il semplice buonsenso considera insostenibile in una società democratica e libera.
E infatti ogni giorno la funzione d’inchiesta sembra ritrasformarsi sempre più in una liturgia inquisitoriale.
Per il tramite del braccio armato di molte procure, la magistratura ha esteso in qualsiasi ambito il suo dominio: assetto di economia e finanza, imprese, banche, enti pubblici amministrativi e politici, poi il colpo (di Stato) decisivo con la decisione sul sistema elettorale.
A quest’ultimo proposito non si può affermare che la corte costituzionale avrebbe una natura diversa rispetto alla magistratura: sia perché i vertici rappresentativi di essa ne fanno parte, sia perché i giudici costituzionali non sono affatto estranei all’ideologia giuridica, sia ancora perché la corte interagisce con il sistema giudiziario.
Ora è il turno della cultura e dell’università. In un convegno tenutosi all’Università Alma Mater di Bologna qualche anno fa Sabino Cassese, commentando la deriva che stava prendendo il sistema universitario, affermò: «Qui rischiamo che i prossimi professori universitari li decideranno i giudici».
La nefasta profezia si è rivelata vera, ma addirittura per difetto. Cassese si riferiva, infatti, al più che probabile fiume di ricorsi che sarebbero seguiti alla procedura di abilitazione (cosa che si è puntualmente verificata; della serie: se non si possono più bocciare gli allievi perché mai si dovrebbero bocciare i professori?).
Qui ci stiamo trovando, invece, di fronte a un fenomeno nuovo e assai più inquietante.
L’apertura di inchieste sui concorsi universitari “truccati” – cosa che di per sé non dovrebbe suscitare scalpore a condizione che si perseguissero tutti gli abusi allo stesso modo – sta rivelando un modo di ragionare da parte degl’inquirenti che, se fossero confermate le notizie che trapelano, sarebbe distruttivo di ogni civiltà giuridica e anche della logica più elementare della vita universitaria (quella illustrata da Paolo Prodi in un suo bellissimo libro sull’università dal Medioevo ai nostri giorni: dove non c’è trasmissione del sapere da un maestro a un allievo non c’è università).
Nessuno al di fuori dei pm conosce ovviamente gli atti processuali.
Ma se fosse vero, come sembra, che in una inchiesta condotta recentemente a Napoli contro il rettore del Suor Orsola Benincasa e altri docenti le prove a carico di questi colleghi fossero il fatto che uno dei componenti nominati della commissione giudicatrice faccia parte di un’associazione culturale alla quale era iscritto il candidato che è risultato vincitore di quel concorso, allora possiamo dire addio non solo allo Stato di diritto, ma anche alla più elementare logica della selezione universitaria.
Chi di noi, docenti e professori chiamati a giudicare nei concorsi, non fa parte di un’associazione culturale, di una rivista, di un’iniziativa collettiva, di un prin, di un comitato scientifico qualsiasi, ai quali non partecipino candidati che ci vedono giudici?
Se passasse questo criterio d’incriminazione, saremmo tutti, dico tutti, colpevoli.
E lo stesso vale per la valutazione dei titoli intesi dalla magistratura solo quantitativamente: deve prevalere il candidato che ne ha di più e non quello che ne ha di migliori. È questo allora che la magistratura vuol fare? Mettere le mani sull’università?
Nessuno nega che vi siano stati e vi siano abusi gravi e anche gravissimi nella vita universitaria (chi scrive è stato una vittima del sistema anti-meritocratico). Ma pretendere che a risolvere questo problema sia il governo dei giudici è una dissennatezza che pagheremo carissima.
Con la definitiva perdita della libertà e del merito, quel poco che ci resta dell’una e dell’altro. Fermo restando che l’ideale è l’onestà di tutti, resto convinto che, quando si tratta di scelte valutative, il più corrotto dei professori sia meglio del più onesto dei magistrati.