Mario Draghi scende di nuovo in campo dopo il discorso dell’11 luglio a Cambridge, Massachusetts, e rilancia la sua ambiziosa agenda per l’Europa, con un articolo sull’Economist. L’ex presidente della Bce e del governo italiano, si chiede innanzitutto se “un’unione monetaria può sopravvivere senza un’unione fiscale”. Domanda retorica e risposta negativa. “Tuttavia oggi, paradossalmente, le prospettive di un’unione fiscale nella zona euro stanno migliorando”, scrive.
Sembra in contraddizione con quello che vediamo giorno dopo giorno sulla scena dell’Unione europea, un dibattito politico che si sta incartando attorno alla riforma del Patto di stabilità. Ma per Draghi la grande occasione è offerta dalle nuove sfide che l’Europa è chiamata a gestire: “Non deve più affrontare soprattutto crisi provocate da malsane politiche dei singoli paesi. Invece deve confrontarsi con shock comuni importati come la pandemia, la crisi energetica, la guerra in Ucraina. Questi shock sono troppo grandi perché i paesi li gestiscano da soli. Di conseguenza c’è meno opposizione affinché vengano affrontati attraverso un’azione fiscale comune”.
Il Patto di stabilità non è più adeguato, anche perché ha un vizio di fondo ormai pienamente riconosciuto: è prociclico, “troppo lento nelle fasi di espansione troppo stretto in quelle di contrazione”. A questo punto,“il peggiore esito possibile sarebbe tornare indietro passivamente ”. L’Europa ha due scelte: “Una è allentare le regole fiscali e quelle sugli aiuti di stato, consentendo agli stati di sobbarcarsi l’onere dell’investimento necessario. Ma siccome lo spazio fiscale non è distribuito uniformemente, sarebbe fondamentalmente dispendioso”. La seconda è “ridefinire l’intelaiatura fiscale e il processo decisionale della Ue”. Le regole debbono essere a un tempo “rigorose per assicurare che le finanze dei governi siano credibili nel medio termine, e flessibili per consentire ai governi di reagire agli shock imprevisti”. La proposta della Commissione va molto avanti, “ma anche se realizzata completamente non risolverebbe pienamente il bilanciamento tra regole rigorose, che debbono essere automatiche per essere credibili, e flessibilità. Questa contraddizione può essere risolta soltanto trasferendo più poteri di spesa al centro, il che a sua volta consente più regole automatiche per gli stati membri”. Draghi porta ad esempio gli Stati Uniti, come aveva fatto già nel suo discorso di luglio.
La critica alla proposta Gentiloni è destinata a far discutere. Il giudizio è netto: non basta. E Draghi rilancia: la strada è opposta a quella che vogliono imboccare i sovranisti perché lasciare più spazio ai singoli governi vuol dire rendere più forte chi già lo è, consentire di spendere e investire solo a quel nucleo (oggi in realtà piccolo) in grado di farlo perché ha risorse a sufficienza e i conti in ordine. Invece “federalizzare” alcune spese per investimenti consente di raggiungere come negli Usa l’equilibro tra regole rigide per i singoli stati ai quali è proibito andare in disavanzo, e scelte fiscali a livello centrale. In sostanza, se la proposta della Commissione non è adeguata, la risposta non è liberi tutti, bensì mettere in comune più sovranità, ciò non implica soltanto un bilancio comunitario, occorre rivedere la governance dell’Unione. Si tratta di superare il principio dell’unanimità, riformando i trattati.
In sostanza, Draghi ripropone un federalismo da Stati Uniti d’Europa ed è convinto che i tempi siano storicamente maturi. Lo sono anche politicamente? “Oggi, mentre ci stiamo avviando verso le elezioni europee del 2024, questa prospettiva sembra irrealistica dal momento che molti cittadini e governi si oppongono alla perdita di sovranità che la riforma del trattato comporterebbe. Ma anche le alternative sono anch’esse irrealistiche”, così conclude l’articolo pubblicato dall’Economist. Gli europei, aveva detto a Cambridge, hanno solo tre opzioni: “Paralisi, uscita o integrazione”. Parole forti della nuova agenda Draghi.