In Italia un dipendente costa 31 mila euro e ne guadagna 16 mila, cioè la differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta del lavoratore è al 47%, ovvero l’azienda versa allo Stato 15 mila euro, tanto quanto guadagna il dipendente. Il datore, quindi, ha due dipendenti da pagare: uno vero, il lavoratore e uno finto, lo Stato.
Con i voucher un dipendente che costa 31 mila euro ne guadagnerebbe 23.250 netti cioè circa 8 mila euro in più di retribuzione netta. Per rimettere le cose a posto basterebbe riportare ad un livello ragionevole il cuneo fiscale-contributivo, cioè dall’attuale 47% al 25%, che è il cuneo previsto dai voucher lavoro.
In questo modo la differenza di aliquota, cioè il 22%, potrebbe essere equamente ripartita a vantaggio tra datore di lavoro e lavoratore, per diminuire il costo del lavoro alle aziende e per aumentare la retribuzione netta al lavoratore.
Il problema non sono i voucher lavoro, il problema è lo Stato
Facciamo un esempio pratico: la retribuzione netta dei voucher è ora di 7,50; potrebbe essere portata a 9,15, cioè 1.537 euro netti al mese, invece di 1.260. In questo modo l’azienda avrebbe un costo del lavoro di 24.981, superiore a quello del voucher, ma inferiore a quello del costo del lavoro ordinario.
Quindi, un dipendente che con le aliquote ordinarie guadagnava 16 mila, ne guadagnerà 20 mila e l’azienda avrà un costo del lavoro non più di 31 mila euro, ma di 27.200. Lo Stato incasserebbe 7500 euro, la metà, invece di 15 mila.
Per poter fare questo è assolutamente necessario realizzare la riforma previdenziale (con la fiscalizzazione della pensione minima affiancata dalla pensione integrativa volontaria libera e privata) e la riduzione della pressione fiscale.
Il problema non sono i voucher lavoro, il problema è lo Stato[spacer height=”20px”]
Elena Vigliano, tributarista e consulente del lavoro