di Paola Brunetti e Emma Galli
Per far fronte alla grave crisi economica innescata dal Covid-19, gli Stati dell’Unione Europea sono stati messi nella condizione di reagire con gli strumenti nazionali di cui dispongono. Con l’attivazione della clausola di salvaguardia generale del Patto di Stabilità, i governi hanno potuto adottare a livello nazionale le misure urgenti di finanza pubblica per mitigare gli effetti del lockdown sia a livello economico che sociale, senza doversi attenere al rispetto dei parametri di convergenza per il deficit e il debito. In conformità all’articolo 107 (paragrafo 3) del Trattato sul Funzionamento dell’UE, è stato inoltre possibile fornire alle imprese sovvenzioni dirette, agevolazioni fiscali o anticipi rimborsabili diretti per favorire la ripresa dei settori economici colpiti dalla pandemia, secondo le linee guida contenute nel Quadro temporaneo per le misure sugli aiuti di Stato.
E’ innegabile che la necessità di agire tempestivamente e la complessità dei meccanismi comunitari previsti dall’attuale governance si sono adattati con fatica alla gestione di uno shock esogeno di tale portata. Questa situazione ha inoltre evidenziato i limiti dell’Unione Europea a “trazione intergovernativa” rispetto a istituzioni e strumenti che maggiormente interpretano la dimensione comunitaria.
Se è vero che il rilancio della nostra economia, così come di quella degli altri partners europei, non può che essere inserito in un contesto europeo data l’elevata integrazione commerciale ed economica, è altrettanto vero che questi interventi avranno un forte impatto sulla concorrenza nei paesi e tra imprese di diversi paesi. Il funzionamento del mercato unico implica infatti condizioni di sviluppo economico e sociale similari e questo rappresenta il presupposto dell’esistenza e del finanziamento di politiche di coesione e regionali volte a promuovere la parità di condizioni. Gli aiuti di Stato contraddicono questa filosofia di fondo e rischiano di far aumentare le disparità tra Paesi.
Attualmente, la mancanza di una politica di spesa pubblica e di tassazione comune nell’UE non consente interventi diversi da quelli utilizzati e in corso di definizione, come il Recovery Fund, che hanno in ogni caso evidenziato la centralità delle istituzioni europee, e in particolare dalla Commissione, nel fronteggiare la crisi. E’ dunque possibile che a partire da questi tentativi di “comunitarizzare” la crisi si dia nuovamente avvio al dibattito sulla opportunità di una politica fiscale comune (presumibilmente nel corso dei lavori dell’imminente Conferenza sul Futuro dell’Europa), questione tanto delicata quanto complessa, su cui più volte si sono infrante le proposte di rafforzamento dell’integrazione europea. Alcuni paesi, come la Germania, che peraltro ha beneficiato ampiamente dei margini di flessibilità cui si è fatto riferimento precedentemente, a fronte di queste aperture chiedono criteri e controlli sulle politiche di bilancio e sui sistemi di tassazione, che fino a questo momento sono stati domaine réservé dei governi nazionali.
Studi recenti di political economy ci suggeriscono che la struttura dei sistemi fiscali siano espressione di equilibri politici, prima ancora che economici, che tengano conto dell’eterogeneità economica e sociale dei contribuenti-elettori, in contesti dinamici e diversi tra paesi. Ipotesi di maggiore integrazione fiscale si scontreranno dunque, ancora una volta, con il presupposto che la politica di bilancio rappresenti il fondamento del patto di convivenza politica nelle democrazie contemporanee?