Il sindaco di Riace e i pericoli della disubbidienza civile

Il sindaco di Riace e i pericoli della disubbidienza civile

Nutriti di illuminismo democratico, i membri del Tribunale Rivoluzionario, ai tempi di Robespierre in Francia, facevano trionfare l’uguaglianza giudicando nobili e proletari con la medesima severità. Escludere il popolo dal supplizio sarebbe stata un’arrogante insolenza verso i più deboli, come se questi ultimi fossero indegni del supplizio. «Riservata ai soli aristocratici – scriveva Anatole France – la ghigliottina sarebbe apparsa come un iniquo privilegio». Forse i giacobini esageravano nella mistica democratica: comunque ci hanno lasciato una modesta eredità, cioè l’affermazione che tutti sono uguali davanti alla legge. Ovverosia, come è scritto in ogni sala di udienze, che la legge è uguale per tutti. Questo principio (che secondo alcuni è un pregiudizio ingannevole) è sancito oggi nella nostra Costituzione. Nondimeno esso è soggetto a una serie crescente di interpretazioni, eccezioni, integrazioni e commenti, da rischiar di perdere il suo stesso significato.

In pratica, ognuno si avvia ad intendere la legge come meglio gli pare. Come accade oggi per il sindaco di Riace, Domenico Lucano, arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Secondo l’accusa, avrebbe addirittura organizzato nozze di convenienza tra residenti riacesi e straniere. Questo sindaco, come tutti gli indagati, è e deve essere ritenuto presunto innocente. Non solo. Il provvedimento cautelare che lo ha colpito è provvisorio e soggetto a impugnazione, e, come tutte le decisioni della magistratura, può benissimo, con il dovuto rispetto e le dovute forme, essere criticato. Per esempio è doveroso domandarsi se sussistano quelle esigenze che giustificano la limitazione della libertà del destinatario.

Nondimeno resta la gravità di un’accusa che, rivolta a chi è investito di cariche pubbliche, assume un connotato di allarmante novità. Se chi è incaricato di far rispettare le leggi ostenta una disubbidienza civile in nome di valutazioni morali, questa ribellione diventa intollerabile, perché invita i cittadini a un’anarchia che nessun malinteso etico può giustificare, e che potrebbe risolversi nei saccheggii dei supermercati con la scusa di sfamare gli indigenti. Se infine, come pare, il sindaco si era trasformato in una sorta di sensale di matrimoni di convenienza, la violazione diventa quasi sacrilega, perché strumentalizza un istituto che, anche spogliato della sua essenza religiosa, costituisce pur sempre quel nucleo essenziale sul quale, come recita la Costituzione, è fondata la famiglia.

C’è poi anche un’altra novità: che mentre negli analoghi casi precedenti i politici inquisiti lamentavano l’inconsistenza delle prove, i complotti delle toghe e la fumosità di teoremi precostituiti, qui non accade nulla di simile. Qui si dà quasi per scontato che il sindaco Lucano violasse la legge; anzi, qualcuno gliene ha fatto un punto di merito. Perché, si dice, questa disubbidienza civile ubbidisce a uno spirito umanitario. Davanti a questo argomento, che rievoca la nobile ribellione di Antigone contro le leggi del tiranno, si potrebbero fare numerose osservazioni: che i criteri cosiddetti umanitari sono spesso generici e soggettivi, che ciò che per Tizio è patriottismo per Caio è tradimento, e che in definitiva, di questo passo, ognuno può invocare a scusante le proprie superstizioni e convenienze, contrabbandandole come sacre convinzioni etiche o religiose fino a dissolvere, in un’ indifferenziata omelia indulgenziale, lo stesso stato di diritto. Ma queste sono considerazioni abbastanza banali.

Quello che invece banale non è, è l’atteggiamento che si sta consolidando verso qualsiasi indagine giudiziaria dove – al di là, ripetiamolo, delle legittime critiche – si afferma una sorta di verità parallela e quasi virtuale ispirata ora dall’ignoranza, ora dalla malafede, e quasi sempre dalla supina adesione ai più ottusi luoghi comuni. Un atteggiamento, questo, molto più pericoloso di quella delegittimazione lamentata, talvolta con isterica petulanza dalla stessa magistratura quando veniva (o viene) accusata di politicizzazione persecutoria.

Perché qui si tratta di un vero e proprio esautoramento, cioè di una rimozione di fatto della funzione giudiziaria a favore di una ricostruzione degli eventi fondata sulla propaganda e sulla fantasia. In altre parole, mentre prima i magistrati correvano il rischio di essere aggrediti dai fanatici, ora rischiano di essere scavalcati da una Giustizia più rapida e più vociferante di quella solennemente o sommessamente pronunziata in tribunale. Oggi, in nome della disubbidienza civile, come accade a Riace. Domani, forse, in nome di quella fraternité che, come appunto ai tempi di Robespierre, spedì migliaia di disgraziati alla ghigliottina.

Carlo Nordio, Il Messaggero 3 ottobre 2018

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