Serve razionalità civile, politica ed economica per analizzare un suicidio civile, politico ed economico. L’adesione incondizionata dell’Unione europea al totem dell’elettrico coincide con la mutilazione di una specializzazione (il diesel prima di tutto), con la cessione di sovranità tecnologica (l’elettrico è core business della Cina) e con la prospettiva di una desertificazione industriale, che comprende sia i carmakers sia
la filiera. Questo indebolimento dell’Europa delle fabbriche fa il paio con il rafforzamento dell’America delle fabbriche, che beneficia di un pacchetto di 400 miliardi di dollari –l’Ira, Inflation reduction act – con sussidi diretti alle imprese e sconti fiscali alle famiglie per l’acquisto di prodotti green, come le auto elettriche.
Il contesto europeo nasce dall’innestarsi di due fenomeni psico-politici prima che tecno-produttivi: il diesel gate tedesco e l’ecologismo radicale, con i suoi tratti da pseudo-religione. Il primo ha oscurato nella opinione pubblica europea ogni significativo miglioramento nell’impatto ambientale dei carburanti tradizionali. Il secondo ha ammantato di moralismo ogni discorso pubblico sulle nuove tecnologie. L’elettrico è assurto a dogma che ha cancellato ogni comparazione approfondita sugli effetti in Africa, in Sud America e in Asia dell’estrazione e della lavorazione delle terre rare con cui si fabbricano, per esempio, le batterie. Questo dogma astratto ha trascurato gli effetti reali sui cittadini-consumatori: in teoria i primi beneficiari, nei fatti le vittime di una selezione “classista” di portafoglio, perché le vetture elettriche sono in media più care.
Un dogma ma anche un perno dei nuovi equilibri internazionali, con appunto la Cina in una posizione di leadership funzionale anche alla cessione di sovranità tecnologica da parte dell’Europa. Nell’elettrico servono meno addetti per produrre una automobile. E la componentistica è differente da quella attuale. In questo contesto esiste l’Unione europea. Ma esistono anche la Germania, la Francia e l’Italia. Con le proprie specificità. Sul piano nazionale per il nostro Paese le cose si complicano. Nella dimensione pubblica e nella dimensione privata. La Francia con il suo centralismo e la Germania con il sistema misto governo nazionale-Laender possono finanziare le politiche industriali di transizione con più agio rispetto all’Italia, perché hanno conti nazionali più in ordine. L’altro elemento sono i singoli produttori, appunto, nazionali.
In ogni tecnologia di frontiera la concentrazione delle risorse tecnologiche e finanziarie, scientifiche e manageriali avviene in nodi coesi e corposi, come appunto le grandi imprese, che producono ricadute sulle filiere sottostanti. I produttori tedeschi hanno reagito al dieselgate con imponenti piani di investimento sull’elettrico, beneficiando del connubio con il sistema cinese. Renault e Peugeot hanno nel tempo creato noccioli duri sull’elettrico che, adesso, costituiscono buone radici generative. Nella dinamica di Stellantis – nata dalla fusione formale e dall’annessione sostanziale di Fca a Peugeot – il sistema industriale nazionale italiano sconta un ritardo di trent’anni: la gracilità dei
cicli di investimenti della Fiat negli anni ’90, la debolezza patrimoniale sua e di Chrysler e la sfiducia nel modello di business dell’elettrico di Marchionne hanno favorito lo svuotamento industriale del Paese di origine, l’Italia, dei suoi marchi, dei suoi centri di ricerca e delle sue fabbriche. Questo vale in ogni segmento. Tanto più nell’elettrico.