il terrorismo al giorno d’oggi

il terrorismo al giorno d’oggi

In via generale, gli atti di terrorismo generati da pulsioni individuali non possono essere né previsti né prevenuti; appartengono al piano dell’imprevedibile e come tali fanno da sempre parte della vita di tutti e in ogni epoca.

Ma oggi c’è qualcosa di assolutamente diverso, che colloca il terrorismo, quello originato da una radicalizzata concezione dell’islamismo, su un piano assolutamente diverso rispetto ai fenomeni del passato, che erano per lo più motivati da ragioni politiche.

Nella normalità di questi casi, i terroristi ai quali eravamo abituati seguivano sempre alcune regole comportamentali: nella fase preparatoria, quella di non palesarsi, nella fase esecutiva quella di salvarsi, nella fase successiva quella di nascondersi e di farla franca.

Tanto per stare all’Europa, pensiamo al terrorismo dei separatisti cattolici nordirlandesi contro i protestanti unionisti, a quello dei separatisti baschi contro lo Stato unitario spagnolo, a quello italiano dell’irredentismo altoatesino, dei NAR e delle brigate rosse, a quello tedesco della banda Baader-Meinhof.

Se poi guardiamo al vicino Medioriente, anche il terrorismo palestinese contro Israele è stato ed è ancora essenzialmente politico, e quindi, tutto sommato, dotato di una sua propria razionalità, esclude sin che è possibile il sacrificio della vita del protagonista e quindi si colloca nell’ambito dei fenomeni, patologici ma razionali, che hanno sempre accompagnato la vita delle comunità.

Lo scenario che si è dispiegato oggi in Europa, ma non solo, è totalmente diverso. Ovviamente, non penso che gli aderenti alla religione islamica siano, per ciò stesso, terroristi; e penso anche che i più non condividano lo stragismo dei loro correligionari, anche se, magari, non guasterebbe che lo facessero sapere un po’ di più o un po’ più forte.

Ma è un fatto oggettivo che pressoché tutti i terroristi di oggi sono seguaci di una versione estrema e radicalizzata dell’Islam, che affonda le sue radici nel contesto in cui è nato, e che, ancora oggi, non riesce a fare i conti col cammino dell’umanità, che si è lasciata alle spalle i secoli bui che hanno interessato anche le altre religioni, a partire da quella cristiana.

La motivazione religiosa dell’islamismo radicale, veicolata attraverso indottrinamenti che fanno intravedere un futuro denso di beatitudini nell’aldilà a chi è disposto a immolarsi per la causa, porta i terroristi di oggi ad agire in totale contraddizione con le tre regole del terrorismo classico, e hanno come massima aspirazione quella di perdere la propria vita, come supremo coronamento della missione che li condurrà nel loro “paradiso”, in cui godranno mille beatitudini: insomma, per chi ci crede, un miraggio quasi irresistibile, che rende inutile la dissuasione preventiva e impossibile ogni contrasto all’azione, una volta che sia iniziata, e del pari inutile ogni ipotesi di ravvedimento.

Giorni fa, a Marsiglia, sono stati arrestati due potenziali terroristi, che progettavano una delle solite stragi; ammesso che vengano condannati, faranno un po’ di carcere, dove magari proveranno a indottrinare altri, e fra qualche anno saranno tornati in libertà; domanda retorica: qualcuno riesce forse a immaginare che desisteranno dai loro iniziali propositi ?

Quello che stiamo vivendo è un fenomeno non nuovo nelle religioni che si propongono come universali e utilizzano questo straordinario “instrumentum regni” nel tentativo di sopraffarsi a vicenda.

È già accaduto quando in Europa si affrontavano, a furia di roghi, cattolici e protestanti di varia confessione, ciascuno di essi convinto di mettere in tal modo ad esecuzione la volontà divina, sino a che il faro dell’illuminismo non arrivò a rischiarare le menti dei rispettivi reggitori e fedeli.

Stando così le cose, se ne deve trarre la conclusione che un fenomeno del genere non possa essere trattato cogli strumenti della normalità sostanziale e processuale, perché un elementare principio di ragionevolezza impone di trattare in maniera diversa fenomeni così palesemente e fortemente diseguali rispetto a quelli del passato.

A questo punto è inevitabile che il dibattito si sposti su un piano diverso, e cioè su quali possano essere gli strumenti nuovi per prevenirlo o almeno per contenerlo significativamente, e poi, in malaugurata ipotesi, per poterlo sanzionare senza dovere attendere i tempi biblici a cui il nostro sistema giudiziario ci ha abituato.

Ed è proprio su questo che dobbiamo esercitare le nostre intelligenze e la nostra fantasia.

Non si tratta di essere buoni o cattivi, perdonisti o forcaioli; si tratta semplicemente di essere realisti e di vedere il fenomeno per ciò che è, poi di metabolizzarne la diversità rispetto a quelli del passato, infine di essere pragmatici nell’individuare i possibili rimedi, pronti a modificarli man mano che la loro applicazione ne evidenzierà gli eventuali difetti.

Tanto per esemplificare, occorre attivare ogni possibile iniziativa diplomatica per indurre i paesi islamici, a partire da chi custodisce i luoghi santi dell’Islam e ne ha quindi la maggiore responsabilità morale, a implementare la nascita di scuole religiose che formino tantissime guide spirituali, da inviare in missione nelle moschee del resto del mondo per sostenere l’esatto contrario di ciò che gli iman radicalizzati vanno da anni impunemente predicando.

Sarebbe questo un buon modo per fare dimenticare di avere inizialmente favorito quelle fazioni radicali dell’Islam, che si sono ora rivoltate anche contro i loro iniziali sponsor.

E i nuovi iman potrebbero provare minacciare l’inferno per chi uccide, piuttosto che il paradiso, e si può immaginare che i fedeli di turno, visto che hanno creduto al paradiso, finiranno per credere anche all’inferno.

Servono ovviamente intese internazionali ai più alti livelli, volontà politiche, risorse ingenti e tempi lunghi; “vaste programme”, direbbe De Gaulle!

Ma nei tempi brevi, anzi brevissimi, che sono quelli delle tragiche emergenze che stiamo vivendo, qualcosa d’altro bisognerà studiare, non solo per evitare che tanti innocenti perdano la vita mentre ne discutiamo, ma anche per evitare la crescente perdita di spazi di libertà che ciascuno di noi, anche lontano mille miglia da luoghi ritenuti pericolosi, finirà comunque per imporsi.

E allora, tanto per cominciare, si dovrebbe subordinare l’apertura di nuovi luoghi di culto a una rigida selezione dei predicatori di turno, i cui sermoni andrebbero pronunziati esclusivamente nella nostra lingua, in termini da verificare con controlli reali, e non solo virtuali come accade oggi.

E poi, va messo in condizione di non nuocere chi, giunto tra noi e accolto dal massimo possibile di solidarietà umana, ostenta le sue convinzioni religiose estremiste nei comportamenti individuali e familiari.

E quindi, via via che il pericolo si fa più concreto, va implementato il trasferimento coattivo nei paesi di origine che accettino di riprenderli, l’uso di arresti cautelativi prolungati sino a che non si dimostri cessata la potenziale minaccia, l’eliminazione dei benefici carcerari, e, prima fra tutte, la perdita della cittadinanza per chi l’avesse nel frattempo immeritatamente acquisita e dimostrasse di non meritarla.

Chi accetta di vivere in una società occidentale, che attraverso secoli anche bui ha conquistato un’infinita serie di libertà civili, non può pensare di poterle impunemente e violentemente conculcare a suo piacimento, utilizzando per delinquere le tante garanzie che una società aperta normalmente assicura a chi accetta i principi fondamentali di una civile convivenza.

A questo punto, rammentando che quasi tutti i protagonisti di questi episodi risultano già noti agli apparati di sicurezza, e per evitare che qualche pubblico funzionario, anche dell’ordine giudiziario, vanifichi le precauzioni del caso con colpevole superficialità, si potrebbe cominciare anche a resuscitare dall’oblio, quanto meno in chiave di messaggio mediatico, il c. d. principio di equivalenza nel rapporto di causalità, secondo cui “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” (art. 40, comma 2, c. p.)

Ovviamente, tutto questo non è possibile a legislazione invariata, e quindi un qualche intervento legislativo s’impone; l’abbiamo già fatto, in qualche misura, negli anni settanta con le brigate rosse, per tanti versi assai meno pericolose ed eversive; dovremmo farlo anche oggi, in una situazione che appare ben più grave.

Insomma, a me pare che, ancora una volta, avesse ragione un liberale doc come Karl Popper quando ammoniva: ”Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi”.

Se questa è forse la sua frase più famosa, la spiegazione che segue, e che non viene quasi mai riportata, è ancora più illuminante: “In questa formulazione, io non implico, per esempio, che si debbano sempre sopprimere le manifestazioni delle filosofie intolleranti; finché possiamo contrastarle con argomentazioni razionali e farle tenere sotto controllo dall’opinione pubblica, la soppressione sarebbe certamente la meno saggia delle decisioni.

Ma dobbiamo proclamare il diritto di sopprimerle, se necessario, anche con la forza; perché può facilmente avvenire che esse non siano disposte a incontrarci a livello dell’argomentazione razionale, ma pretendano ripudiare ogni argomentazione; esse possono vietare ai loro seguaci di prestare ascolto all’argomentazione razionale, perché considerata ingannevole, e invitarli a rispondere agli argomenti con l’uso della violenza.

Dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti. Dovremmo insomma proclamare che ogni movimento che predica l’intolleranza si pone fuori legge e dovremmo considerare come crimini l’incitamento all’intolleranza e alla persecuzione, allo stesso modo che consideriamo un crimine l’incitamento all’assassinio, al ratto o al ripristino del commercio degli schiavi. E, insieme alla tolleranza, rischiamo di mettere in pericolo anche la Libertà, che è bene troppo prezioso per affidarlo ai demagoghi che, così continuando, prima o poi arriveranno”.

Non diversamente da Popper si era espresso Benedetto Croce, all’indomani del secondo conflitto mondiale, scrivendo: “Colpa dei regimi liberali che si sono lasciati sopraffare non è di essere stati poco liberali, ma di essere stati imbelli, per incuranza, per imprevidenza, per momentaneo smarrimento”; quando invece per un liberale è chiaro che “forza e violenza non sono la stessa cosa, ….., perché con la prima l’uomo celebra la sua libertà e riconosce quella degli altri, ….. la seconda è violazione della libertà altrui, un costringere con le minacce e coi fatti quel che altri da sé non vorrebbe né dire né fare”.

La posta in gioco, quindi, è la Libertà di tutti, messa a rischio dall’intolleranza di pochi, tollerata dall’indifferenza di molti e favorita dalla superficialità, se non dalla negligenza, di alcuni. [spacer height=”20px”]

Enzo Palumbo, Criticaliberale.it 1 maggio 2017

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