“Migliorare l’efficienza del sistema giudiziario” è una delle raccomandazioni principali che l’Unione Europea ci ha dato anche quest’anno come parte del processo del “Semestre Europeo”, processo di grande importanza visto che ad esso sarà legata l’erogazione delle risorse del Recovery Plan. Ed è una raccomandazione fondamentale, non solo per la nostra società, ma per la nostra economia. Sì, perché un paese dove il sistema giudiziario è inefficiente, dove occorrono anni e anni per ottenere sentenze, non è un paese in cui vi può essere certezza del diritto. E dove non c’è certezza del diritto l’economia e società funzionano male.
Il problema della lentezza della giustizia esiste per tutte le sue componenti, amministrativa, penale, civile. Ci limitiamo ad esaminare quest’ultima, ma anche nelle altre due aree i problemi sono seri. Nel civile, i dati dei confronti internazionali sono impietosi. I procedimenti civili, in media, durano in Italia quattro volte in più che in Germania e tre volte in più che in Spagna. Rispetto alla Francia siamo messi un po’ meglio: solo il doppio. Quanto danneggia questa indolenza l’economia italiana? Molto. Basterà ricordare che nei sondaggi degli investitori internazionali, la lentezza della giustizia civile è sempre citata ai primi posti tra i disincentivi all’investimento in Italia. Ridurre in modo drastico la durata dei processi è quindi fondamentale. E -attenzione- il solito refrain “ci vogliono più risorse” non funziona: la spesa italiana è in media con quella europea.
Già, ma cosa fare? Il governo a gennaio ha presentato una legge di riforma della giustizia civile che ora attende la discussione parlamentare. Non ci sembra sufficiente, perché non affrontava in maniera abbastanza incisiva molti problemi. Le proposte si concentrano su modifiche chirurgiche quasi esclusivamente relative al codice di procedura civile senza una visione e riflessione più ampia del “servizio giustizia civile” e dell’impatto sull’economia e sull’organizzazione del lavoro nei tribunali. E allora, gli autori di questo articolo insieme a Mario Barbuto, ex presidente del tribunale di Torino, e a Leonardo D’Urso, esperto di risoluzione extragiudiziale delle controversie, hanno preparato un breve documento per fare una proposta alternativa, documento che viene oggi pubblicato su diversi siti compreso quello de La Stampa e sostenuto da vari istituti e fondazioni. Ve ne facciamo un riassunto.
La principale idea dietro alla nostra proposta di riforma è che è fondamentale agire su due diversi piani. Il primo comprende il processo e l’organizzazione del lavoro, il secondo è quello degli incentivi.
Partiamo dal primo. Il disegno di legge governativo è soprattutto focalizzato su cambiamenti -alcuni condivisibili, altri meno- nelle procedure seguite per gestire una causa. Ma due cose mancano. La prima riguarda il miglioramento nella gestione dei processi. Molti giudici non accettano l’idea che un tribunale sia un organizzazione complessa che produce un servizio, che la qualità includa la tempestività e che tale tempestività dipenda da come il lavoro è organizzato. Occorre allora sviluppare migliori capacità di gestione e organizzazione all’interno dei tribunali. Questo richiede non solo addestramento adeguato (obbligatori corsi di management per chi aspira a cariche direttive), ma anche riconoscere una larga autonomia al dirigente dell’ufficio nel creare una squadra che, all’interno del tribunale, gestisca il flusso dei processi al fine di garantirne una efficiente conduzione. La seconda omissione riguarda invece l’alleggerimento della macchina della giustizia stessa: all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, una quota elevata delle controversie civili non viene risolta in tribunale ma attraverso processi extragiudiziali. Questi esistono anche in Italia, ma vanno potenziati in diversi modi: ad esempio, affidando a notai ed avvocati molte procedure di volontaria giurisdizione o estendendo la mediazione civile e le procedure utilizzate dall’Arbitro Bancario e Finanziario e dai Corecom in altri settori del contenzioso.
Passiamo agli incentivi. Al momento alcuni fruitori della giustizia civile hanno interesse a tirarla per le lunghe. Questi includono chi sa di essere in torto ma che, con ricorsi e altre procedure, cerca di ritardare la sentenza finale. Altri hanno invece un incentivo a far partire la macchina per un viaggio inutile. Ad esempio, chi inizia cause con il solo scopo di dar fastidio a qualcun altro, intasando le corti. Occorre agire per scoraggiare gli uni e gli altri accrescendo i costi per chi si comporta in modo inappropriato. In primis, aumentando considerevolmente il contributo unificato per gli attori in appello o cassazione che vedono respinto il loro ricorso (insomma ci si appella solo se si è veramente convinti delle proprie ragioni) e, per chi ha avuto torto due volte e insiste in Cassazione, anche aumentando considerevolmente il risarcimento delle spese processuali a favore della controparte.
Poi ci sono i magistrati. Per questi ultimi il problema è l’assenza di stimoli a fare in modo che il processo si chiuda rapidamente. Se la velocità con cui sono conclusi i processi non è considerata un parametro rilevante nel valutare il comportamento di un giudice o di un presidente del tribunale, allora la tempestività non sarà mai percepita come un valore. Occorrono premi economici agli uffici (non ai singoli) che smaltiscono più velocemente l’arretrato (evitando l’astuzia di scegliersi solo i processi più semplici per far media) ed interventi specifici da parte del Ministero o del CSM nei confronti dei tribunali più lenti, sistema già utilizzato nel 2015 dal Ministro Orlando ma che dovrebbe essere rafforzato dotando di cogenza le raccomandazioni degli ispettori. Al presidente del tribunale o di sezione spetterebbe inoltre sorvegliare il rispetto della fissazione della prima udienza da parte dei giudici e i ritardi dovrebbero pesare sugli avanzamenti di carriera.
Organizzativamente, una maggiore specializzazione, incrementando le competenze dei tribunali delle imprese e replicandone il modello, nonché l’estensione con gli opportuni adattamenti del rito del lavoro a tutti i giudizi di cognizione con giudice monocratico, porterebbero a maggior celerità e qualità delle decisioni. Infine, si deve drasticamente ridurre il numero di magistrati fuori ruolo per incarichi amministrativi e limitare la possibilità di attività extragiudiziarie. E’ opportuno che i togati lavorino nei palazzi di giustizia non nei ministeri.
In conclusione, ridurre i tempi della giustizia è, insieme alla semplificazione burocratica, la più importante riforma che la nostra economia deve affrontare per rilanciarsi, una volta superata la fase immediata dell’emergenza economica. Tornare alla vecchia normalità non sarà sufficiente: non possiamo permetterci, dopo l’esperienza del primo ventennio del ventunesimo secolo, altri vent’anni di crisi tra crisi e crescita anemica. E ristabilire la certezza del diritto in Italia è essenziale per raggiungere una nuova e migliore normalità.
Carlo Cottarelli – Alessandro De Nicola
Pubblicato da La Stampa il 05.06.2020