Fino a pochi mesi fa, in Italia nessuno avrebbe mai pensato di inserire in un contratto commerciale una clausola che permetta il recesso in caso di guerra. E invece è successo. Se scoppia una guerra, che possa coinvolgere il nostro Paese, il contratto può essere sciolto. Sapevamo che nei contratti di grandi aziende contenevano le classiche clausole di forza maggiore, cioè eventi imprevedibili quali: catastrofi naturali, pandemie, scioperi prolungati oppure leggi e provvedimenti che impediscono l’esecuzione del contratto.
Si legge: “Nel caso in cui scoppi un conflitto armato che coinvolga direttamente o indirettamente la Repubblica Italiana o il Paese della controparte, ciascuna parte si riserva il diritto di recedere dal presente contratto con effetto immediato, senza oneri o penali”. Sì, fa uno strano effetto.
E’ il segno di un cambiamento che sta avvenendo sotto i nostri occhi, mentre la maggior parte delle persone continua a guardare altrove.
Questa nuova formula è significativa perché fino a pochi anni fa una previsione simile sarebbe stata impensabile in Europa. Il rischio di una guerra vicina sembrava remoto. Eppure, in un contesto geopolitico molto più instabile – tra tensioni globali, disimpegno degli Usa dalla difesa europea e la minaccia russa – anche le imprese iniziano a tutelarsi preventivamente.
Stiamo entrando in una nuova era economica, un’economia dove le logiche di guerra (paura, controllo e protezione) stanno sostituendo quelle della libertà, del mercato, della concorrenza. E’ un’economia di guerra, anche se non vi sono soldati al fronte.
La politica energetica, ad esempio, sta cambiando direzione. La sicurezza ha preso il posto della decarbonizzazione. E le priorità non sono più la crescita e l’efficienza, ma il controllo e l’autosufficienza. I governi intervengono ovunque, sussidiano imprese strategiche, proteggono campioni nazionali, bloccano investimenti esteri, sorvegliano i dati e le piatteforme online. Si combatte a colpi di dazi, divieti e restrizioni.
In nome della sovranità, si sta mettendo in discussione il principio fondamentale di un’economia libera e aperta. Lo Stato torna protagonista, non per garantire regole uguali per tutti, ma per scegliere chi deve vincere e chi può perdere. E’ una logica pericolosa che rischia di soffocare l’innovazione e di spaventare gli investitori che vogliono scommettere sul nostro Paese.
Il problema è che tutto questo viene giustificato come una narrazione efficace, ovvero quella della paura. Paura della Cina, della Russia, della crisi climatica, paura del futuro insomma. Proprio nei momenti di incertezza e paura è fondamentale ricordare che la libertà economica non è un lusso, ma il fondamento stesso della crescita e del benessere. E’ l’unico motore in grado di generare innovazione, lavoro e opportunità per tutti.
Secondo il giurista Alberto Saravalle e l’economista Carlo Stagnaro – esponenti di spicco della cultura liberale – siamo su un’auto lanciata a tutta velocità verso un muro. E se non sterziamo adesso, lo schianto sarà inevitabile.
Ci servono leader capaci di vedere oltre il panico del presente. Abbiamo bisogno di una classe dirigente che difenda i principi della società aperta, anche quando è difficile farlo.
La Lomellina