Quel che accade nel centro destra non riguarda solo il centro destra, ma tutti. Per gli ovvi riflessi sull’intero sistema istituzionale, ma anche per il modo in cui sintetizza la fine di un tempo. Abbiamo esaminato l’ambiguità irrealistica e illusoria di alcune proposte pentastellate, lo smarrimento ideale e financo i costumi mimetici dell’odierna sinistra, ma è guardando nel centro destra che si coglie per intero il tramonto di una stagione.
Durante la campagna elettorale diversi esponenti di quel mondo pubblicamente mi rimproverarono perché, a loro dire, escludevo la possibilità che vincessero. Non la escludevo, non avevo e non ho la palla di vetro, ma una cosa contava ancor di più: se vincerete, dicevo, vi dividerete, come avete sempre fatto. Non hanno vinto, ma si sono divisi lo stesso.
La mia, però, non era una previsione, bensì una constatazione: erano già divisi, risultando patetici nei tentativi di negarlo. Ma c’era e c’è una novità, in quel dividersi, qualcosa che estingue una storia: fin dal 1994 Silvio Berlusconi ha assemblato forze diverse, utilizzandole per fare massa critica attorno alla prevalente consistenza elettorale del suo gruppo, ora ne è stato sopraffatto.
Non è un dettaglio agonistico, ma la conclusione di un film.
Mettere assieme ingredienti diversi, talora incompatibili, pur di vincere, è il marchio d’origine della così detta seconda Repubblica. L’artefice è Berlusconi. Subito dopo di lui il metodo fu adottato dalla sinistra e ben due volte, con Romano Prodi, funzionò e li fece vincere. Per questo sostengo che Berlusconi e Prodi sono i responsabili dell’avere consegnato l’elettorato ragionevole (erroneamente detto: moderato) in ostaggio di forze non ragionevoli.
La differenza era che a destra i governi partivano e presto s’immobilizzavano, mentre a sinistra partivano e presto si sfasciavano. È stata così generata la stagione del non governo, godendo i vantaggi della nascita dell’euro, ma nulla facendo di quel che le nuove regole richiedevano, bruciando il tempo comprato dalla Banca centrale europea.
Le elezioni del 4 marzo hanno cambiato questa raffigurazione: le forze che raccolgono l’elettorato ragionevole non sono più ostaggio degli estremismi, ne sono state soverchiate. Anche perché l’elettorato ragionevole non ha più trovato razionale votare forze inutili.
C’è stato un cambio della guardia nell’astensione: un tempo non andavano a votare qualunquisti ed estremisti, ora sono i primi a deporre la scheda. Che altro serve per constatare la fine di quella lunga e largamente inutile stagione? Il guaio è che innanzi a sé ha il vuoto. Un vuoto generato dal vuoto e che genera vuoto.
Guardatela, questa fotografia. Provate a farlo senza eccedere in sentimenti. Vi accorgerete che manca qualcuno: l’Italia che funziona, che corre e compete, ha perso rappresentanza. Non è un caso che si discuta, dappertutto, su come sarebbe più opportuno far crescere il deficit e aumentare il debito pubblico, laddove servirebbe l’opposto.
Per anni abbiamo parlato di problemi reali e ricette concrete, suscitando interesse (non importa se consenso) fra gli avvertiti, posto che s’ingrossavano a dismisura le fila degli agitati e dei recriminanti.
Forse non avevamo torto, ma non è questo quel che conta. Conta sapere che se non si riprende a parlare quel linguaggio, se non si fanno tornare sulla scena gli interessi dell’Italia produttiva, si finirà con il pagare il prezzo imposto dall’Italia mantenuta e rancorosa. E sarà alto, dal punto di vista materiale non meno che morale. [spacer height=”20px”]
Davide Giacalone, 18 marzo 2018