Si fa presto a dire riformismo. Forse, perché non c’è cosa più difficile. Svolgere quotidianamente un lavoro serio che altro non è che una continua opera di manutenzione della democrazia e della società è, appunto, cosa ardua. Più facile, invece, è gridare che ciò che serve è una «rivoluzione» perché solo con un cambiamento radicale si possono risolvere tutti i problemi. Risultato? L’immobilismo.
Non solo perché in Italia si pretende di fare la rivoluzione con l’autorizzazione dei carabinieri, come diceva Longanesi, ma anche e soprattutto perché il movimento rivoluzionario ritorna al punto di partenza scendendo di volta in volta un gradino del girone infernale. Il riformismo, al contrario, non gira in tondo ma svolge la logica dei piccoli passi reali, che sono quelli del governo possibile, aggiustando le cose che non vanno. Karl Popper, ad esempio, riteneva che la politica riformatrice fosse la via giusta per tenere in forma la democrazia liberale la quale, del resto, per funzionare ha continuamente bisogno di essere rinfrescata per tenere in equilibrio i due elementi che la compongono: il popolo e la libertà. Quando l’equilibrio si smarrisce, la democrazia diventa facile preda della demagogia che oggi in Italia, prendendo il nome di populismo, alimenta il mito della soluzione facile e definitiva di tutti i problemi che si avrebbe ora con la decrescita felice, ora con il debito, ora con il sovranismo, ora con il salvatore della patria. Tutte illusioni che le nuove generazioni e perfino i figli delle nuove generazioni pagano e pagheranno a caro prezzo se la politica non riuscirà a rinsavire e a recuperare il meglio delle tre culture politiche novecentesche: liberali, popolari, socialisti. Sul tema Alessandro Barbano ha scritto un libro tanto generoso quanto intenso: La visione. Una proposta politica per cambiare l’Italia (Mondadori).
Il giornalista — ha diretto «Il Mattino» — prende le mosse da un’analisi spietata della malattia italiana in cui il bipolarismo non è diventato l’auspicata «democrazia dell’alternanza», con in sostanza due classi dirigenti accomunate dagli stessi valori di riferimento che si alternano alla guida del Paese, bensì una micidiale, ci si passi la definizione, «democrazia dell’altalena» in cui si fronteggiano due populismi che per quanto si prendano a pesci in faccia hanno in comune più di quanto non siano disposti ad ammettere: «Lo statalismo distributivo, fatto di sostegno ai redditi e incentivi a pioggia, che finisce per declinare in welfare assistenziale l’intento keynesiano di sostenere la domanda, trova lo stesso consenso tanto in una sinistra pentita, di fronte agli incerti della globalizzazione, delle sue aperture liberali, quanto in una destra sovranista che fa uso spregiudicato della mano pubblica per blindare il consenso». Questi due schieramenti, gialloverde e giallorosso, che si guardano allo specchio fingendosi di non riconoscersi, hanno dato il peggio durante la stagione del Covid-19, che Barbano critica in modo severo ma rigoroso nel tentativo di uscire dalla selva oscura in cui l’Italia sembra essere caduta: «La pandemia ha testato il livello di efficienza delle democrazia. Per l’Italia è stata una Caporetto».
Le difficoltà nostrane, inoltre, non riguardano solo la gestione dell’epidemia, affidata dalla politica al Comitato tecnico-scientifico, ma alla stessa «ripartenza» che è invocata ma non attuata perché in Italia esiste la «società signorile di massa», secondo la definizione del sociologo Luca Ricolfi che il giornalista fa propria per descrivere «una condizione tutta italiana» in cui vige da oltre vent’anni la stagnazione, in cui la rendita sopravanza i redditi, in cui il numero di chi non lavora è superiore al numero di chi lavora e chi non lavora conduce una vita al di sopra dei suoi mezzi, in cui c’è un’infrastruttura para-schiavistica composta da gruppi provenienti dall’Est e dall’Africa, in cui la distruzione della scuola, dell’università e di «tutto l’apparato formativo del Paese» ha gonfiato le aspettative oltre i meriti effettivi (tipico risultato, direbbe Luigi Einaudi, dell’illusione generata dall’indebito valore legale dei titoli di studio). A fronte di questa, davvero, Caporetto, quale strada si può imboccare per uscire da quello che Saverio Vertone all’inizio degli anni Novanta chiamava l’ultimo manicomio? Alessandro Barbano non propone una ricetta ma, come recita il titolo del libro, una visione che scaturisce dalla sintesi culturale delle tre famiglie dei liberali, dei popolari e dei socialisti che hanno più cose in comune che cose in contrasto. Si dirà: nulla di nuovo sotto il sole. E, tuttavia, Barbano rilancia: «Cos’altro c’è nella cassetta degli attrezzi della democrazia occidentale? E con quali arnesi altrove e in Europa si è posto argine all’avanzare del populismo?». Si tratta, in definitiva, di un «usato sicuro» che ha uno spazio politico ma non una forma partito distinta dai due populismi.