La giustizia è messa assai male, ma serve a nulla dirlo. Si deve indicare un modo per uscirne. Si deve riconoscere il problema, essere consci delle forze disponibili e muoversi sul terreno del possibile. Oramai i guasti sono così profondi da essere divenuti culturali. Ci vorranno anni e nuove leve (fra i laureati e cattedratici). Ma si deve cominciare.
La magistratura correntizzata non ha capito di avere perso ogni prestigio. La politica demagogizzata non ha capito di avere perso ogni forza.
I primi volevano arrestare (in tutti i sensi) i secondi, per sostituirsi ad essi, sono invece riusciti a sputtanare l’autogoverno, trasformandolo da argine contro la politicizzazione in alluvione politicizzata. I secondi hanno, a turno, provato a cavalcare i primi, festeggiando la caduta in disgrazia degli avversari e provando a negoziare la propria incolumità, così riuscendo a finire tutti sul banco degli accusati.
Gli uni e gli altri hanno supposto d’essere dritti, laddove erano traditori del diritto.
Considerato che nella maggioranza di governo si trovano i due partiti che diedero vita al primo governo Conte, nonché alla più incivile delle riforme giustizialiste (i pentastellati non hanno vincoli tematici e festeggiano litigando in tribunale il loro essere ruspanti liberticidi, mentre i leghisti sembrano essersi convinti che battersi per l’opposto di quel che fecero sia un buon modo d’andare avanti).
Considerato che Forza Italia debuttò chiedendo ad Antonio Di Pietro di fare il ministro della giustizia. Considerato che Renzi lo chiese a Nicola Gratteri. Considerato, infine, che il Partito democratico non si sa se sia la carne garantista che fu il Pci, il pesce giustizialista che furono Ds e Pds, o la purga organizzatrice della correntizzazione dei magistrati.
Considerato tutto ciò, sebbene con un qual certo disgusto, la tattica dei piccoli passi, adottata dal governo Draghi e dal suo ministro della giustizia, Marta Cartabia, ha un senso. Da una parte non è detto che ci riesca, dall’altra non è detto che serva a molto.
La separazione delle funzioni, cui punta uno dei referendum e la riforma proposta dal governo, è un brodino tiepido. Meglio del fiele, comunque. La riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, anche qui sommandosi referendum e iniziativa legislativa, non è manco brodino e manco tiepido.
Di ciò si lamentano quelli che vorrebbero la (giustissima) separazione delle carriere, come quelli che temono sia loro sottratta la spartitocrazia. Il pregio di referendum e riforme è di stare in mezzo. Il difetto è d’essere dimezzati.
Prendiamola da un’altra parte. Se c’è una cosa che qualsiasi persona sensata sa essere una presa in giro è l’obbligatorietà dell’azione penale, che si è tradotta, quando va bene, nell’apertura di fascicoli che poi nessuno segue, salvo privilegiare quelli che promettono di promuovere un seguito personale.
(A proposito, in libreria trovate due libri di Luca Palamara, sapientemente redatti da Alessandro Sallusti: a parte l’orrido, si tratta di una sequenza continua di reati, risultano altrettanti fascicoli aperti? Quanti dei citati sono indagati o hanno presentato querela?)
Cancelliamo quella falsa promessa e utilizziamo i risultati processuali per valutare i procuratori: quanti portano in giudizio quelli che saranno condannati sono bravi, quanti ci portano i futuri assolti non sono bravi e creano danni. Prendiamo le sentenze, nei vari gradi: quanti ne redigono di poi confermate sono bravi, mentre i sottoposti a continue riforme e revoche non sono bravi e creano danni.
Naturalmente vale l’insieme e non un solo caso, come può anche darsi che uno sia bravissimo, ma sfortunato. Se facesse il chirurgo nessuno vorrebbe farsi operare dallo iellato.
Questi dati sono già disponibili, solo che il Csm promuove tutti e spartisce le spoglie. Cominciamo dal merito, dandogli parametri verificabili. Avviamo la liberazione dagli incapaci. Non è affatto detto sia una strage, di sicuro è buona e promettente cosa.