“Servono decisioni concrete, tagliate i legami con i nostri assassini. I leader dei Paesi democratici devono smettere di stringere la mano agli assassini delle donne iraniane”. Lo ha detto Masih Alinejad, attivista per i diritti umani delle donne iraniane e anima del movimento “Donna, Vita, Libertà” contro l’apartheid di genere in Iran e in Afghanistan, in occasione della presentazione del nuovo libro di Mariano Giustino, “Iran a mani nude. Storie di donne coraggiose contro ayatollah e pasdaran”, che si è svolta questa sera nella Fondazione Luigi Einaudi.
Dal 16 settembre 2022, per la prima volta, la popolazione di Teheran, cuore culturale e politico del Paese, è scesa in strada per ribellarsi contro l’uccisione di una ragazza curda, Mahsa Amini, non persiana e non sciita, una donna che apparteneva alla periferia, al Kurdistan. Ciò ha rappresentato il primo passo di una profonda rivoluzione. Questo e molto altro viene raccontato nel nuovo libro di Giustino, edito da Rubbettino, e sponsorizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi, che raccoglie, integrandole, le “storie di donne coraggiose” raccontate dall’autore sul sito della Fondazione.
Ha introdotto il dibattito il segretario generale della Fondazione Luigi Einaudi, Andrea Cangini, che, insieme all’autore, alle attiviste per i diritti umani Masih Alinejad e Rayhane Tabrizi, e al regista curdo iraniano Fariborz Kamkari, ha dato vita a un interessante dibattito impreziosito dagli interventi delle giornaliste Giovanna Reanda di Radio Radicale, Flavia Fratello di La7 e Federica Sciarelli di Rai 2.
“Vengo da un Paese, l’Iran, dove il solo fatto di togliere l’hijab, di mostrare i capelli, può farti morire assassinata, come accaduto due anni fa a Mahsa Amini, uccisa dalla polizia morale iraniana semplicemente per aver mostrato un po’ di capelli”, ha raccontato Masih Alinejad. “In pratica non esistiamo se diciamo no al velo”. Alinejad in questi anni si è spesa molto per portare la questione dell’obbligo dell’hijab all’attenzione internazionale. “Ma voglio essere chiara”, ha aggiunto, “la nostra lotta non è contro un piccolo pezzo di stoffa, ma contro uno dei simboli più visibili della dittatura religiosa. Vogliamo porre fine alla repubblica islamica. Sotto questo regime le ragazze e le donne sono cittadine che non hanno valore, tutte le leggi islamiche sono contro di noi. Proprio mentre vi sto parlando il regime sta intensificando la pressione contro di noi”.
Nel corso del suo intervento Alinejad, che vive negli Usa sotto scorta avendo subito attentati dai servizi di sicurezza iraniani, ha ricordato che nel 2023 in Iran sono state giustiziate più di 800 persone e che, durante la rivolta “Donna, vita, libertà”, la Repubblica islamica ha arrestato più di 22mila manifestanti e condannato all’impiccagione uomini e donne per creare paura. “Vi chiediamo di unirvi a noi”, ha sottolineato. “Continuiamo a sentire i leader delle democrazie occidentali dire di essere al nostro fianco ma il nostro punto è: non vogliamo che siate dalla nostra parte vogliamo che vi sediate con i vostri alleati e prendiate decisioni concrete per isolare l’apartheid di genere”.
Ha preso poi la parola il regista curdo-iraniano, pluripremiato, Fariborz Kamkari. “Nel 1979”, ha detto, “per la prima volta un Paese molto ricco è stato governato dall’islam politico. Da quel momento l’Iran è stato diviso e reso una società basata sull’idea di Khomeyni, un’idea che vedeva tutti i cittadini come dei fedeli e in cui era dovere dello Stato guidarli verso il paradiso. Le donne erano l’elemento fondamentale perciò il regime ha tagliato loro tutti i diritti che avevano conquistato nei settanta anni precedenti”, ha spiegato. “L’Iran è una realtà multiculturale, esistono popoli che vedono negati i propri diritti. C’è una grande pressione ad esempio per eliminare il popolo curdo, io sono nato nel Kurdistan iraniano”. La rivoluzione “Donna, vita e libertà”, ha aggiunto, “ha avuto un impatto molto significativo anche perché si tratta di una rivoluzione che definirei della periferia contro il centro. Per la prima volta vediamo che parte di chi è del centro è unito con chi protesta ed abita le periferie”.
Kamkari è un regista, sceneggiatore e scrittore di successo. Condannato tre volte in Iran, è stato rinchiuso nel famigerato carcere di Evin e torturato, perché voleva svolgere la professione che ama, quella di regista. Il suo film di maggiore successo è “I fiori di Kirkuk” (2010), tratto dal romanzo omonimo, e il suo ultimo romanzo è “Ritorno in Iran” edito dalla Nave di Teseo. “Per me è diventata una missione di vita”, ha detto. “Il cinema mi ha dato la possibilità di raccontare la storia che conoscevo ed è stato uno strumento molto efficace. Sono stato tre volte in prigione, non perché sono un criminale ma perché ho scritto racconti nella mia lingua, una lingua che non ho imparato a scuola. In prigione sono stato torturato, purtroppo lì praticare la tortura è la normalità”.
A Rayhane Tabrizi è spettato l’intervento conclusivo. “Chi dice che ciò che succede in Medio Oriente deve essere risolto dal Medio Oriente non ha capito la situazione e il ruolo internazionale che gioca oggi la Repubblica islamica. Ciò che succede lì ci tocca direttamente”, ha detto. “Da donna iraniana suggerisco vivamente il libro di Mariano Giustino perché lui ha spiegato molto bene, e in modo semplice, la storia dell’Iran e di come le donne vivevano prima del 1979. Con aneddoti, spiegando le diverse etnie e i diversi linguaggi, ed entrando nel merito della lotta delle donne iraniane che va oltre questi 45 anni”.
Tabrizi ha dato vita all’associazione Maana, associazione culturale e sociale fondata a Milano con l’obiettivo di promuovere la cultura iraniana. “Quella partita due anni fa”, ha sottolineato, “è una rivoluzione che ci ha unito tantissimo. In questi due anni molte cose sono cambiate, sia sul piano politico sia culturale. I paesi occidentali devono sostenere il popolo iraniano con azioni concrete, non dandoci il contentino con gesti simbolici come il taglio di una ciocca di capelli. È importante raccontare che le donne iraniane oggi non stanno lottando solo per se stesse, ma per le donne afgane e per tutte le donne del Medio Oriente. Se le donne iraniane vinceranno molte altre si ribelleranno, per questo c’è poco sostegno dagli altri paesi”. Questa, ha concluso, “non è una rivoluzione femminista, è simbolicamente femminile, ma se siamo riuscite ad andare avanti in questi anni è anche grazie al sostegno di tanti uomini”.
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